L’opera prima dei gemelli D’Innocenzo narra una vicenda per nulla originale, quella di due ragazzi che riescono ad accedere ad una organizzazione mafiosa con lo scopo di cambiare la loro condizione di miseria e fare soldi, eppure i due la osservano con uno sguardo che elimina l’epica dalla narrazione criminale (quella che ci fa appassionare alle vicende che seguiamo) per guardare da fuori ciò che avviene in scena. È come se La Terra dell’Abbastanza avesse in sé due film diversi e non conciliabili: quello che emerge dalle immagini, che vorrebbe far credere, con l’equilibrio ed il rigore della messa in scena, che i due ragazzi siano in grado di compiere i crimini più indicibili senza mai farsi scalfire nell’animo, e quello che emerge dalla narrazione e dalle espressioni dei personaggi, che invece ci suggerisce drammi e dubbi che la regia non sembra voler evidenziare.
Una separazione fra ciò che vediamo e ciò che la narrazione vorrebbe farci capire, ovvero che i due giovani non sono così impermeabili alla violenza come invece le immagini suggerirebbero. Le esecuzioni dei due sono sempre riprese con una precisione chirurgica, che indugia sulla pulizia e la freddezza del lavoro che compiono, eppure ad ogni sequenza di violenza segue sempre una scena che ci dice una cosa diversa, ovvero che i due non sono davvero impassibili ma subiscono ed accusano ogni colpo (anche se sono loro a sferrarlo e non a riceverlo). Quando li osserviamo eseguire i loro incarichi illegali, i ragazzi del film sembrano essere i migliori nel soddisfare le esigenze dei loro “boss” (rapidi e lucidi), eppure è chiaro che i visi dei due ragazzi vogliono suggerirci che non è così.
Ma il dualismo del film coinvolge anche la descrizione della periferia nella quale le vicende si svolgono, che non calca la mano sul degrado delle baraccopoli e dei condomini bunker, ma invece si ferma spesso ad inquadrare luoghi che vivono di colori (quasi alla Sean Baker) che mai assoceremmo a quelle zone urbane: cabine da spiaggia con decorazioni vivaci, palazzoni dalle colorazioni accese ed ombrellini azzurri per gioiosi compleanni di bambini. I D’Innocenzo scelgono di guardare il mondo del crimine con uno sguardo che non condanna i colpevoli senza considerare prima le debolezze che comunque si celano nelle loro azioni. Pur essendo impossibile difendere chi sceglie di uccidere e spacciare per soldi, è altrettanto impossibile non provare genuina compassione verso i due ragazzi del film, non meno umani di chi subisce la loro violenza.
Il film dei D’Innocenzo richiama il cinema disadorno di Caligari ma si sofferma sulle vicende individuali e non sui fenomeni sociali, guarda ai drammi personali più che a quelli generazionali (come invece in Amore Tossico). Perciò, pur non rovesciando mai le regole del genere, ma seguendo invece gli snodi classici di un cinema che ha un linguaggio specifico, l’opera prima dei due gemelli romani non sembra voler parlare di crimine (e di come esso corrompa i personaggi) ma di amicizia. E se la relazione fra i due giovani si svolge, si sfascia e si ricompone in una cornice che è quella del crimine di periferia, la descrizione della condizione dei due è funzionale ad una narrazione che ha uno scopo diverso da quello proprio dei film sulla delinquenza e che ha la sua forza nei personaggi e non nella dimensione nella quale essi operano.
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