C’è un personaggio dei tarocchi, Il Folle, che è simbolo di estro e libertà, nel senso di emancipazione dalla propria storia personale e da quelle cose che in qualche modo definiscono la nostra persona (nazionalità, religione ecc.). Alejandro Jodorowsky, che in quella figura si identifica, è consapevole che bisogna conoscere le proprie radici, senza per questo doverle accettare, per dichiararsi indipendenti da esse. Così Poesia senza fine si inserisce in quel percorso ambizioso, cominciato con La danza della realtà, che mira a narrare la vita dello stesso artista con una serie di cinque lungometraggi in grado di trasporre i passaggi della sua esistenza in chiave allegorica.
Il cinema di Alejandro Jodorowsky non assomiglia a nulla se non a se stesso ed è quindi impossibile scrivere una recensione canonica per un’opera così immensa ed impenetrabile. Le immagini che compongono Poesia senza fine si prestano ad interpretazioni anche antitetiche tra loro, proprio come i tarocchi o le parabole del Vangelo (che sono due degli argomenti che hanno segnato più di altri il percorso da studioso del regista).
In Poesia senza fine il regista cileno quindi parte da dove terminava il precedente “capitolo” della sua storia per raccontare ora la propria maturazione artistica e la sua liberazione dalle zavorre del passato. Liberazione resa possibile anche dalle figure che con la loro arte lo hanno ispirato, a partire da Nicanor Parra, l’antipoeta che con le sue debolezze umane si è contrapposto, persino nelle iniziali speculari, al “dio” Neruda (NP e PN). Parra rivendicava il suo essere “zampa di gallina” e non “petto di pollo” come il proprio rivale, nonché “il solo poeta cileno a non aver bisogno di pseudonimi” (da arrivare a pensare persino di firmarsi come Neftalí Reyes, nome reale di Neruda). La sua poesia quotidiana, che fuggiva la grandiloquenza, è stata una delle maggiori ispirazioni della beat generation, tanto che lo stesso Allen Ginsberg fu tra i primi a tradurre i versi di Parra negli USA. Le scene di lirismo esasperato di cui il cinema di Jodorowsky si compone, in una decostruzione che spesso rende possibile la visione delle sue opere anche in maniera scomposta, sembrano seguire la logica degli “artefactos” del suo maestro, ovvero cartoline con aforismi e disegni che venivano vendute in scatole e che prese singolarmente potevano essere regalate o scagliate come pietre contro qualcuno.
Così come emblematica è la camminata in linea retta assieme al suo amico Enrique Lihn, con il quale Jodorowsky decise tempo addietro di percorrere le strade della sua città senza mai cambiare direzione, scavalcando le auto che si ponevano come ostacolo ed entrando nelle abitazioni private che impedivano il passaggio. Questi due “poeti in azione”, come loro stessi si definiscono in Poesia senza fine ad una signora costretta ad aprire le porte di casa, negli anni ’50, ispirati dalla massima futurista secondo cui “la poesia è un atto”, si divertivano a provocare i loro concittadini con gesti assurdi e surreali (non tutti mostrati nel film): rubare il braccio da un cadavere conservato nella facoltà di medicina ed usarlo per stringere le mani dei passanti, o ancora sfidare il materialismo pagando autisti e controllori dei treni con delle conchiglie.
La grandezza di Jodorowsky sta nel creare una dimensione da sogno usando esclusivamente gli elementi della realtà: dai personaggi (in Poesia senza fine compaiono anche i suoi figli, che interpretano il loro nonno ed il loro padre) agli ambienti, che sono quelli veri della sua giovinezza ma mostrati come se provenissero da una dimensione diversa da quella in cui viviamo noi. Perché il surrealismo del regista cileno è comunque qualcosa di ben diverso da quello classico alla André Breton, inquadrato entro limiti ben precisi che Jodorowsky nega dai tempi della fondazione del suo Movimento Panico (nato proprio dalla volontà di superare quel genere di surrealismo). Nel cast di Poesia senza fine spiccano anche la coreografa Carolyn Carlson, il poeta siriano Adonis ed altri nomi non riconducibili al mondo del cinema, la cui partecipazione rende sempre più labile il confine tra realtà e finzione (che non esiste neanche negli eventi narrati, proposti come realmente accaduti ma con il beneficio del dubbio). Così la cantante lirica Pamela Flores torna nei panni di Sara, la madre del regista morta con il sogno di diventare soprano, che già aveva interpretato (cantando e non recitando) nello scorso La danza della realtà. Ma a lei è affidato anche il secondo ruolo di Stella Díaz Varín, amante di Jodorowsky, musa di Parra e punk ante litteram. Una donna in grado di scolarsi due litri di birra in pochi secondi e di sferrare pugni come un pugile, così da essersi guadagnata il soprannome della “Bukowski cilena”.
Da esperto di metagenealogia, Jodorowsky sa bene che quando si comincia a studiare il proprio albero genealogico la prima cosa da fare è perdonare i propri padri (intesi evangelicamente come padre e madri). Così Poesia senza fine si conclude con una sincera assoluzione del figlio nei confronti del genitore che aveva cercato di castrarlo negandogli la poesia. Perché, per usare le parole dello stesso regista, “per mettere i nostri genitori al loro posto dobbiamo perdonarli, e per perdonarli bisogna capire perché si sono comportati in quel modo”. Alla fine di ogni cosa perdonare è comprendere.
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