Enrico Ghezzi scriveva nel 1997 che ogni film è in realtà uno “snuff movie”, perché d’altronde già la vita stessa lo è. È il film in cui “si vedono insieme il corpo e l’anima”, che rende superflua “l’operazione mentale di distacco e riconoscimento”, tanto da non richiedere neanche la macchina da presa, perché ciò che viene filmato è un supplizio che non ha bisogno di essere definito cinematograficamente in quanto già conosciuto dallo spettatore, già espiato. Il senso dello scavare la carne, dell’indagare l’uomo dall’interno delle sue cavità, risiede quindi in un processo di scarnificazione che è sempre preludio allo svelamento dell’anima (come se questa fosse qualcosa di anatomicamente apprezzabile, nascosta sotto le viscere e le budella).
Per mettere in scena le uccisioni del suo serial killer, Lars Von Trier si rifà a quello che sembra diventato ormai il suo modello di riferimento: l’operetta. La Casa di Jack è quindi una commedia che ha l’obiettivo di affermare il Male come estetica, travestita da kolossal senza catarsi, da tragedia senza dramma. Jack non è solo un ingegnere ed architetto incompiuto, ma soprattuto un fine conoscitore della storia e dell’arte europea, di cui fa parte anche il cinema dello stesso Lars Von Trier. Il cineasta danese infatti si auto-cita per gridare allo spettatore ciò che sarebbe stato chiaro anche senza pedanti e didascaliche sottolineature: Jack è lui e lo struggimento del personaggio è quello del regista. Anche per questo il film di Von Trier segue una narrazione per enunciati e dimostrazioni che vorrebbero spiegare al pubblico il suo pensiero (o quello che lui vorrebbe farci credere sia il suo pensiero) ed allo stesso tempo lo contraddice attraverso il personaggio di Verge: il film inteso come un organismo biologico che in sé contiene le difese necessarie a limitare gli eventi che contrastano con la sua sopravvivenza. Un modo per giocare sulla sua immagine mediatica (anch’essa creata accumulando cadaveri ed uccisioni, cioè i suoi film precedenti) e rispondere alle accuse di chi in passato lo ha criticato.
Per usare ancora le parole di Ghezzi, il cinema di Von Trier è un cinema “già alluvionato”: piove spesso e anche quando non piove tutto sembra che sia già stato ri-bagnato e ri-inumidito dal mezzo filmico. Così anche La Casa di Jack non può che essere un film fradicio, in cui l’acqua arriva persino come benedizione dal cielo a lavare via le tracce di sangue. Ed è l’acqua che i due protagonisti devono attraversare, bagnandosi ed inzuppandosi, nella loro catabasi finale. Per l’epilogo “acquatico” il regista ricompone La barca di Dante di Eugène Delacroix che naviga l’Acheronte, vestendo Matt Dillon con una tunica rossa che dovrebbe ricordare il sommo poeta ma che lo fa assomigliare più a Vincent Price ne La maschera della morte rossa di Roger Corman.
Sui lunghissimi 155 minuti di film, Von Trier sembra però cogliere l’essenza dello “snuff movie” in una sola scena, quando un giovanissimo Jack taglia la zampa ad un anatroccolo, lo riposiziona nello stagno da cui lo aveva preso e lo osserva mentre cerca di nuotare a fatica nel suo stesso sangue. È una sequenza che da sola ci dice tutto ciò che c’è da dire sul senso di questi film: il piacere non deriva dal compimento dell’atto violento, ma dal voyeurismo che questo induce. Lo spettatore, come Jack, prova piacere e sgomento nello scandagliare con lo sguardo il dolore e la sofferenza altrui. Non a caso il fenomeno cinematografico clandestino dello “snuff movie” nasce inizialmente come reazione alla diffusione pubblica dei primi filmati di torture perpetrate dalle milizie serbo-bosniache e diviene fenomeno di massa agli inizi del 2000, quando la somministrazione giornaliera di video atroci si fa regolare durante la guerra in Afghanistan. È quindi un genere che nasce prima di tutto come reazione dello spettatore davanti alla violenza.
Von Trier è un regista che aspira alla sua stessa mitizzazione, per la quale è disposto a rivelare la sua presenza (rendendosi riconoscibile attraverso le immagini) e a rifiutare l’impersonalità del mezzo filmico. Eppure questo suo cinema sempre in bilico sulla grandezza trova i suoi momenti più intensi quando ammette la sconfitta, cioè quando il regista rinuncia ad essere il demiurgo della sua opera-gioco, le cui regole sono già scritte per essere vinte e padroneggiate. Quello di Von Trier è un cinema iper-artificioso attraversato da un gusto situazionista per cui ogni scena si esaurisce nel momento stesso in cui termina: incerto ed inconcludente (oltre che inconcluso, come la casa di Jack), ma anche finito e de-finito.
Le forze dell’ordine di questa America traslata in Europa faticano a catturare Jack non solo perché comicamente stupide, ma perché anche loro consapevoli che è su quelle uccisioni che si fonda la loro società (nell’ottica anti-americana del regista). L’America è infatti “the house that Jack built”. Ma Von Trier si compiace troppo spesso della sua crudeltà messa a bella posa (non è il primo a spaventarsi dell’orrore che mette in scena) e la disinnesca per scopi ricreativi. Se Nymphomaniac compieva una parallela ed estrema operazione di “estetizzazione” di un genere (il porno) che l’ha sempre negata, La Casa di Jack estetizza ciò che è già stato estetizzato sino alla rarefazione: la violenza. Ogni immagine sembra fatta per essere macellata con gli occhi e lo “snuff-movie” di Von Trier si concede come vittima allo sguardo impietoso del suo carnefice, cioè lo spettatore.
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