Jehnny Beth è una delle artiste francese più poliedriche e imprevedibili: attrice nominata per un César nel 2017 (e tra le protagonista di Anatomie d’une chute di Justine Triet, in concorso quest’anno), fondatrice dell’etichetta Pop Noire Records e cantante della band britannica Savages, alla Semaine de la Critique ha presentato il cortometraggio musicale Stranger, che ha co-diretto al fianco di Iris Chassaigne (People who drive at night, Swan in the center).
Stranger è un film in cui le preoccupazioni nascoste della quotidianità si scontrano con un’incredibile sete di vita: il cortometraggio racconta, attraverso la musica, la rinascita di una donna (Agathe Rousselle, già protagonista di Titane) che ha perso il contatto con sé stessa e che gradualmente si riconnette con le sue emozioni quando incontra una sconosciuta.
D: Stranger nasce dalla musica e dai brani che Jehnny aveva scritto per il suo nuovo album solista. Da dove arriva quindi l’idea di espandere quelle canzoni con un progetto crossmediale, dal taglio cinematografico?
JEHNNY BETH: Penso sempre alle immagini quando scrivo la mia musica. Ma nell’industria musicale, dove i brani prendono vita e si evolvono, c’è questa idea del videoclip legata alla commercializzazione della musica e non tanto ad una ambizione artistica. Inoltre, quando ho scritto i brani che hanno poi composto il progetto di Stranger, mi è sembrato che ascoltati insieme raccontassero una storia. Quindi ho immaginato, senza sapere all’inizio quale sarebbe stata la forma che avremmo scelto, di scrivere qualcosa di narrativo che tenesse insieme queste canzoni. È stata un’intuizione, più che altro. E poi si trattava di qualcosa che non avevo mai fatto prima e sperimentare cose nuove è sempre una delle principali motivazioni che mi guida.
D: Iris, in che modo questo progetto si inserisce nel tuo percorso da regista? Hai trovato nella prima bozza di sceneggiatura presentata da Jehnny qualcosa di familiare con il tuo percorso artistico?
IRIS CHASSAIGNE: Penso che il progetto sia molto diverso dai cortometraggi che ho diretto in passato, ma c’è sicuramente una connessione tematica. Ci sono sempre questi personaggi che si sentono estranei, “strangers”, per l’appunto, nel mondo in cui vivono. Non sanno bene come adattarsi al mondo che li circonda, che sembra ostile e incomprensibile. E così anche l’idea del desiderio che si oppone alla noia della quotidianità, quando questa è vuota e senza stimoli. Sono alcune sfumature che ho portato quando sono entrata nel progetto come co-regista. Molto però era già presente, come ad esempio lo spazio in cui avremmo girato: questi enormi uffici che mi hanno immediatamente affascinato, perché sono interessata a questi non-luoghi, freddi e glaciali, in cui spesso si svolge la nostra vita (il centro commerciale del suo precedente cortometraggio, ndr). Lo abbiamo utilizzato un po’ come se fosse l’ufficio di Play Time di Jacques Tati, sfruttando tutte le possibilità che ci offriva in termini di composizione dell’inquadratura.
D: Come avete lavorato affinché la musica non prendesse il sopravvento sul resto del film e, allo stesso tempo, aggirando i meccanismi tipici dei musical tradizionali?
IRIS CHASSAIGNE: Prima di girare pensavamo sempre a come raggiungere questo equilibrio tra le due componenti, quella musicale e quella visiva. Poi, in realtà, una volta che abbiamo cominciato, il problema non si è posto più. Non c’è stata mai davvero una contrapposizione tra le due cose. Abbiamo iniziato a considerare la musica come uno strumento della messa in scena, come se questa fosse un altro attore, un altro personaggio nella storia.
JEHNNY BETH: Ci sono molti riferimenti cinematografici che ci hanno aiutato e che ci hanno ispirato, come ad esempio Annette. La scena della motocicletta è stata molto influenzata da quella, molto simile, che c’è nel film di Leos Carax con Adam Driver. Però, allo stesso tempo, non volevo realizzare un musical, perché le canzoni non erano state scritte con quello scopo e perché io, da spettatrice, non amo molto il genere. La cosa che mi annoia dei musical è che c’è sempre quel passaggio un po’ ridicolo dal momento in cui i personaggi parlano normalmente a quello in cui poi iniziano a comunicare tra loro cantando. Persino la loro voce cambia e la cosa mi crea sempre un po’ di fastidio da spettatrice. Quando stavamo pensando a come utilizzare la musica nel film e ai suoni da mixare nelle scene in cui non erano presenti i miei brani, ci è venuta l’idea di non far parlare mai il mio personaggio nei momenti in cui non canta. È stata una decisione presa poco prima di cominciare a girare.
IRIS CHASSAIGNE: Effettivamente, adesso che mi ci fai pensare, l’idea di far esprimere il personaggio di Jehnny solo attraverso la musica, e di non farlo parlare nel resto delle scene, serviva anche a questo. Ad evitare quell’effetto un po’ imbarazzante. La musica è la sua dimensione ideale: si esprime con la musica quando parla e quando pensa. Contrapponendosi invece al personaggio di Agathe (Rousselle, ndr) che invece si esprime principalmente attraverso la parola.
D: Il corpo di Jehnny e Agathe è fondamentale per veicolare le loro emozioni, in questo caso, e ovviamente poi diventa anche lo strumento attraverso cui la musica esprime tutto il suo potenziale catartico e liberatorio. Come avete affrontato questo aspetto?
JEHNNY BETH: L’utilizzo del corpo come forma di espressione è sicuramente una cosa che accomuna me e Agathe Rousselle. Ho ovviamente adorato la sua interpretazione in Titane e mi piace molto il suo approccio molto fisico al cinema. È una cosa che nel cinema francese stiamo esplorando da poco, in realtà. Agathe è sicuramente una delle attrici più interessate a questo e grazie a Titane ha acquisito una grande esperienza. Prendi la scena della rissa nel club, ad esempio: ci si è buttata a capofitto e ne è venuta fuori alla grande!
IRIS CHASSAIGNE: Abbiamo anche lavorato al movimento del corpo di Agathe nelle scene che non sono musicali, quelle magari in cui è da sola su schermo. L’obiettivo era quello di comunicare, attraverso gesti inconsueti e movimenti inusuali, il suo desiderio e la sua irrequietezza.
D: Se la musica dei tre brani che compongo il film è sempre strettamente collegata alla narrazione, all’evoluzione emotiva dei personaggi, mi sembra invece che i testi abbiano una potenza più collettiva, che va al di là di quello che sta succedendo in scena. È così?
JEHNNY BETH: Beh, è interessante quello che dici. Effettivamente i testi delle canzoni hanno una loro forza comunicativa, come se fossero dei dialoghi interiori, ma allo stesso tempo non veicolano una conversazione o un dialogo tra i due personaggi, come avviene nei musical di cui parlavamo prima. Ho fatto davvero poche modifiche rispetto a quello che avevo scritto prima di iniziare a lavorare al cortometraggio, ma penso anche io che aggiungano un altro livello di lettura alle immagini, alla storia. Sono dei testi molto poetici e rimangono nella loro astrazione anche una volta inseriti nel film. Certo, non siamo al livello di lirismo e astrazione di Thom Yorke, ma offrono un’altra prospettiva, un altro punto di vista, sulle cose che vediamo.
IRIS CHASSAIGNE: Penso che tu abbia assolutamente ragione. Quando Jehnny comincia a cantare non si rivolge più soltanto all’altro personaggio, ma al pubblico. Ci trasporta in qualche modo fuori dalla scena.
D: Una delle differenze sostanziali tra Stranger e un comune videoclip musicale penso stia nella possibilità di emanciparsi, in qualche modo, dal predominio del montaggio, che non è più lo strumento principale attraverso il quale modellare il ritmo della narrazione…
JEHNNY BETH: Certo, è sicuramente così. Volevamo proprio evitare il montaggio serrato e sincopato dei videoclip musicali. E, proprio per opporci a quel tipo di estetica, abbiamo girato molte delle scene in un unico take. In alcuni casi abbiamo fatto dei tagli, in altri no, ma sempre lavorando su di un’unica ripresa continua. Era importante per noi trovare uno stile visivo che fosse peculiare e che appartenesse effettivamente a noi e a questo film.
IRIS CHASSAIGNE: La musica e le immagini dialogano tra di loro, ma non vanno sempre nella stessa direzione. E penso che questa sia la più grande differenza con i videoclip, in cui invece le due cose devono sempre e comunque combaciare.
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