Dopo un film così radicale e spiazzante come Tre Piani, dal quale si congedava a pochi minuti dall’inizio, rendendo evidente il desiderio di sottrarsi alla macchina da presa dopo decenni di (sovra?)esposizione, Nanni Moretti stavolta mette a proprio agio il pubblico con un amarcord pleonasticamente “morettiano”. Il sospetto, però, è che si tratti di un raggiro, del benevolo trucco di un autore che decide provocatoriamente di adeguarsi allo stereotipo a cui lo hanno ridotto, alla generica e semplicistica definizione che i dizionari più moderni danno dell’aggettivo derivato dal suo nome proprio. Moretti fa e rifà sé stesso: lo ri-vediamo mentre si consola con una vaschetta di gelato, più modesto sostituto della Nutella extra-large di Bianca, cantare stonando e fuori tempo in macchina dopo averlo fatto ne La Stanza del Figlio, palleggiare pensieroso e malinconico come in Caro Diario, accanirsi su piccoli dettagli esotici fino a dar loro una valenza quasi universale-filosofica (in questo caso i sabot, sempre riprendendo la massima morettiana “ogni scarpa una camminata, ogni camminata una diversa concezione del mondo”). E così, allo stesso modo, assistiamo all’annullamento della distanza tra profilmico e filmico in sognanti sequenze corali che richiamano quelle di Palombella Rossa. Si rimette quindi al centro dell’attenzione fino a rendere indisponente la sua presenza, si concede al pubblico dandogli quello che vuole, cioè quello non aveva assolutamente trovato nel suo film precedente. Eppure la reiterazione di tutte le idiosincrasie che comunemente vengono associate al suo cinema non ha mai, in questo suo nuovo lavoro, un tono giocoso e leggero, ma di forzata esasperazione, nel tentativo, forse, di esaurire-esaudire finalmente le richieste - sempre le stesse da decenni - di un pubblico che, come accade per i registi che stima e acclama, vive il cambiamento come un passaggio difficile e doloroso.
Come in Tre Piani la programmatica austerità della messinscena e della recitazione serviva per dare più rilevanza a quell’apertura verso l’esterno e verso il futuro cui tendeva lentamente il film, anche in questo caso la foga di autocitazionismo è propedeutica ad una liberazione finale che pare annunciare un allontanamento definitivo, se pur non traumatico, da quel modo di raccontare l’attualità come urgenza e contingenza. Se il cinema egoriferito di Nanni Moretti ha sempre osservato la realtà attraverso il filtro del proprio autore, da Il Sol dell’Avvenire sembra emergere (specialmente nelle sequenze di uno dei tanti film-nel-film, quello in cui si immagina un’ipotetica commedia sentimentale scandita da famosissime canzoni italiane) una voglia di affrontare il mondo senza sovrastrutture intellettuali, vivendolo come viene e smettendo, per quanto possibile, di metterlo costantemente in discussione. «Mi piace dire che faccio cinema senza pensare al pubblico, ma non lo so se è vero», risponde Giovanni alla domanda dell’attempato fidanzato di sua figlia, ammettendo, anche se con reticenza, di non essere riuscito davvero ad emanciparsi dalle aspettative che gli altri proiettavano su di lui. E sembra infatti di poter percepire, da parte di Moretti, una certa insoddisfazione nel non essere stato in grado di rendere quel dramma in costume sull’Italia degli anni Cinquanta un progetto reale e di essere stato invece “costretto” ad inserirlo come elemento metacinematografico in un film che parla d’altro (quasi sempre di sé stesso e della sua relazione con la filmografia in cui si inserisce).
Il personaggio di Giovanni, proprio come chi lo interpreta, non è un regista in crisi, senza più idee, ma anzi uno di quelli con la mente sempre tesa al futuro, che già immagina il suo film successivo prima ancora di finire quello su cui sta lavorando, che vorrebbe mettersi ancora di più in gioco e accorciare i tempi di produzione dei suoi lavori per poterne realizzare il maggior numero possibile nel tempo che gli rimane per sperimentare nuove cose. Eppure c’è qualcosa che lo tiene fermo, una stanca e forse in alcuni casi involontaria spinta a ripetersi per rendersi riconoscibile, un ritornare sempre ad una familiarità che tranquillizza e in cui ci si sente al sicuro. Ed è proprio questa riluttanza al cambiamento che lo induce a guardare con sospetto e amarezza tutti quelli che, attorno a lui, nel cinema o nelle relazioni, hanno deciso invece di cambiare approccio e atteggiamento, di adattarsi ad un contesto che non è più quello di venti o trent’anni fa. Giovanni cerca disperatamente di far cambiare loro idea (alla moglie che lo vuole lasciare, al giovane regista con un’idea sulla violenza cinematografica diversa dalla sua): per la prima volta, quindi, in un film di Nanni Moretti, ritrovarsi in “minoranza” non è più qualcosa di cui andare necessariamente fieri, da sbandierare con orgoglio infischiandosene se gli altri hanno deciso di andare da un’altra parte, ma una condizione di solitudine, di impotenza, di tristezza che si cerca, se possibile, di attenuare.
In questo senso, è rivoluzionaria (nel microcosmo “morettiano”, che per lo spettatore de Il Sol dell’Avvenire è però l’universo tutto) la riconciliazione finale con sé stesso e con gli altri, con il proprio passato e con un futuro ancora da immaginare. Una riconciliazione che non passa da un “compromesso” ma, pare, dalla convivenza serena con chi ha deciso di fare le cose in maniera diversa (e, perché no, anche antitetica), dalla rinuncia a voler imporre a tutti i costi la propria visione, pur rimanendo nella convinzione che quella in cui si gioca sia, in ogni caso, la metà giusta del campo. Bisognerà aspettare il film successivo - quello dell’avvenire, appunto - per capire fino in fondo questo. Per comprendere se la scelta di Moretti è quella di “impiccarsi” all’ideologia o di liberare il suo cinema dalla propria ingombrante eredità.
P.S. Un altro grande maestro del cinema europeo come Michael Haneke aveva tentato, con il suo Happy End, un’operazione similare a quella di Moretti, rimettendo in circolo tutte le principali ossessioni della propria filmografia, ma collocandole in un contesto diverso, più morigerato e sonnecchiante, che le rendeva improvvisamente aliene, strane, sospette. Anche in quel caso, c’era la modernità a complicare le cose. Eppure il regista tedesco (allora 75enne) aveva dimostrato di conoscere benissimo le nuove tendenze e i nuovi costumi (nel caso specifico, l’avanzata degli youtuber e il loro pubblico di ragazzini) e di saperle mettere in scena con precisione e meticolosità. Ne Il Sol dell’Avvenire, invece, tutto ciò che riguarda la contemporaneità è rappresentato in maniera così approssimativa da rendere inevitabilmente più blande e meno centrate la critiche che le vengono mosse.
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