Da sempre il cinema di David Cronenberg si basa sull’assunto che gli esseri umani sono costantemente creati e ricreati dalle loro stesse invenzioni. Se il mito della fondamentale universalità del genere umano è solo il prodotto di un auspicio dei filosofi settecenteschi, la realtà psicologica di un individuo non è una cosa “naturale”, ma dipende dal modo in cui l’ambiente, e quindi anche le estensioni tecnologiche dell’uomo, lo condizionano. Crimes of the Future - nessuna relazione con l’omonimo film del 1969 – si inserisce nel filone di Rabid, Videodrome, Inseparabili ed eXistenZ: racconta il prototipo di una nuova umanità in transito, soggetta ad un processo di metamorfosi sublimante che lavora sul desiderio di diventare diversa da ciò che è sempre stata. Ma come in quei precedenti film, anche questo non è interessato solo al corpo nel suo mutamento privato, colto nella sua fisiopatologia più intima, ma anche all’utopia dei corpi e degli organismi al plurale, predicata da gruppi di attivisti malati, assuefatti alla loro patologia, che lottano affinché questa si possa diffondere al resto dell’umanità. È un film in cui i corpi si trasformano e acquisiscono nuovi organi, escrescenze e cisti diventano accessori alla moda da esibire (ma d’altronde già Seth Brundle de La Mosca ebbe l’idea di creare un piccolo museo della sua anatomia). Un body-horror in cui il bisturi diventa un sex-toy e l’autopsia un happening a cui presenziare con un cocktail in mano.
La creazione estetica si è sempre maggiormente identificata, almeno dalle avanguardie in poi, con l’azione proiettiva del performer, con una sua sempre più accesa, onnicomprensiva e vorace espressività. Guardando dentro sé e riemergendo fuori di sé, anche Saul Tenser, nuovo protagonista cronenberghiano e forse alter-ego del regista, si esprime in un prodotto, nell’estensione vettoriale di sé nel mondo. Una vettorializzazione esasperata, dal momento che il vero e proprio processo creativo alla base delle opere di Tenser, ovvero la fase di crescita dell’organo e la successiva sovrapposizione del disegno sulla sua faccia esterna, è negato agli occhi di chi guarda, ridotto a semplice testimone della fase estrattiva, quella in cui il prodotto (precedentemente realizzato) viene prelevato ed esposto, già non più funzionale, solo presenza estetica. Lo scopo della performance diventa così quello di esteriorizzare la proliferazione del proprio organismo, rimuovendo organi potenzialmente pericolosi, che il performer ha accolto dentro di sé, e consegnandoli al pubblico ormai innocui. È la sensibilità chirurgica di Kiki Smith, quella che intende il corpo non in maniera organica e unitaria, ma come assemblaggio di fragili contenitori di fluidi.
Come un aruspice, Cronenberg interroga le viscere deformi che sopravvivono e si oppongono al lento decadimento dal mondo, ribellandosi al corpo che li dovrebbe contenere, libere di crescere, di occupare il vuoto delle cavità riempiendolo di un nuovo significato pulsante, tangibile, vitale. L’esame delle budella (ancora nel corpo o già estratte: adhaerentia o erepta exta) serve a rivelare un presagio, a comprendere meglio ciò che sta fuori dal corpo. Il cinema cronenberghiano prende così definitivamente atto che sulla Terra c’è un nuovo “regno” che si è aggiunto a quelli minerale, vegetale e animale: è il regno sintetico, quello che i sapiens hanno creato attraverso la ricombinazione e la produzione di materiali. Un regno che ha ormai superato in termini quantitativi l’insieme della biomassa dei viventi animali e vegetali e che quindi reclama nuovi spazi in cui esistere. Ed è per questo che tutto ciò che gli esseri umani hanno proiettato fuori nei secoli (ma soprattutto negli ultimi decenni), deve essere riassorbito dai tessuti in un processo che è già inesorabilmente in corso (come testimonia la recente rilevazione di microplastiche nel sangue effettuata dagli scienziati dell’Università di Amsterdam). A questo nuovo regno sembra quindi completamente aderire un film che fa della plastica il fulcro della sua messa in scena: di plastica sono i macchinari che aiutano il protagonista a dormire e a mangiare, lo sono gli organi che vengono prelevati dal suo corpo, lo è un’ambientazione esplicitamente finta, teatrale, spettralmente inabitata. I personaggi si muovono anch’essi come performer, abitano uno spazio che non sembra essere fatto per essere abitato. Cronenberg ragiona sul destino di un mondo che non si vede, che sembra essere stato anch’esso rimosso attraverso un’operazione chirurgica. Allo spettatore non rimane che la contemplazione della cicatrice, del taglio che ha estirpato tutto ciò che c’era prima di questo futuro così desolante e cedevole, da outlet o da discount (anche nell’abbigliamento).
Gli abitanti del futuro cronenberghiano sono ormai immuni da qualsiasi forma di dolore: si perforano, si lacerano e si feriscono senza che nulla provochi loro alcun tipo di sofferenza. Ma l’indifferenza rispetto a questo costante aprirsi violento non risparmia neanche chi guarda, messo davanti ad un picacismo innocuo, privo dell’ansia della recisione e della lesione. Le operazioni chirurgiche che si svolgono in pubblico, nella loro finzione esibita, non seducono e non spaventano, creano una distanza che annulla il pericolo. “Non ho più dimestichezza con il vecchio sesso”, dice Saul Tenser in una frase del film che è già citazione, rispondendo al desiderio sessuale-chirurgico di Timlin. Eppure il bacio così appassionato tra i due, con la lingua di lei che cerca di raggiungere quel groppo (o ulteriore organo?) che blocca la gola di lui, rendendo difficoltoso il respiro, è una delle scene più belle di Crimes of the Future. Una ragazza singhiozzante, che parla muovendosi in avanti come a voler afferrare l’aria con la bocca e mangiarla, e un uomo con una tosse che non gli concede tregua, sempre sul punto di sputare qualcosa, trovano un momentaneo sollievo a questa loro inquietudine l’uno nell’altro. Senza sonde, aghi o futuristiche protesi. È il corpo umano che si impone finalmente sul dominio del sintetico.
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