Venezia 82 | Bugonia, la misantropia di Lanthimos in forma di commedia
Bugonia, insieme a La Favorita, è l’opera più accessibile e godibile del regista greco.
Rispetto al coreano Save the Green Planet! del 2003, il remake di Lanthimos aggiunge pochissimo a livello di sceneggiatura - già particolarmente brillante e rimasta pressoché inalterata negli snodi fondamentali - ma si limita ad adattarne il modello allo stile con cui è diventato famoso il regista greco, sperando di raggiungere quel pubblico occidentale (numerosissimo) che il film originale non lo ha mai visto. Trattandosi, nella sua essenza, di una commedia grottesca modellata sugli stereotipi del revenge movie, Bugonia finisce per dialogare inevitabilmente con Il Sacrificio del Cervo Sacro (anch’esso, tra le altre cose, un revenge movie atipico). Stavolta, però, il registro è decisamente più farsesco e gustosamente surreale: non c’è più Schubert, insomma, a imporre il tono del racconto, ma le canzoni di Chappell Roan e Green Day. Allo stesso tempo, la regia è inaspettatamente sobria e funzionale al racconto, senza troppi svolazzi e manierismi. Catapultato in un progetto che inizialmente non prevedeva la sua presenza (il remake, prodotto da Ari Aster, doveva essere diretto dall’autore del film originale: Jang Joon-hwan), Lanthimos dismette per un attimo le vesti del regista-tiranno. Non insegue più Aronofsky e Lars Von Trier nel loro mondo allegorico, né tantomeno tenta di rifare il cinema antropologico e sociale di Haneke. Si diverte senza troppi intellettualismi e permette così al pubblico di divertirsi con lui.

Certo, a uno sguardo più attento, si ritrova quella misantropia esasperata che è diventata (meritatamente o suo malgrado?) la cifra autoriale di Lanthimos, quell’insofferenza rispetto al genere umano - e quindi rispetto ai personaggi dei suoi film - che scatena la perfidia e la cattiveria del regista. Stavolta, però, il sadismo con cui “torturare” i protagonisti è meno esibito e persino le scene di violenza che li coinvolgono sono più caute rispetto a quelle dell’originale coreano. Molto dipende forse dal fatto che la vittima che viene rapita e seviziata è l’attrice prediletta di Lanthimos, quella di cui il suo cinema sembra non poter più fare a meno. Emma Stone - forse ancora più brava che nel celebratissimo Povere creature! - riesce a convincere il pubblico di tutto e il contrario di tutto rispetto alle sue buone intenzioni e alla sua provenienza (terrestre o aliena?). Spregevole e respingente, poi improvvisamente empatica e sensibile: l’opinione che lo spettatore ha su di lei cambia in continuazione. Si tratta, in tal senso, di un cambio di prospettiva fondamentale rispetto al precedente coreano, che invece spingeva il pubblico a empatizzare principalmente con l’aguzzino (cosa che non avviene con Jesse Plemons, le cui motivazioni appaiono fin da subito demenziali e deplorevoli).
Non ci si illuda: non c’è nessun messaggio pregnante sul presente che il film vuole veicolare, nessun sottotesto politico da far emergere. Quello di Lanthimos è escapismo d’autore. “Arte ricreativa”, potremmo dire, citando Collingwood: quella che mira esclusivamente alla risposta immediata di chi guarda. Ma in questo caso non sembra esserci vergogna. La natura del film - a differenza di quella della sua protagonista - viene dichiarata fin da subito e non camuffata attraverso infingimenti stilistici. Bugonia, insieme a La Favorita, è forse l’opera più accessibile del regista greco. E persino la conclusione del film (che è poi la stessa della versione coreana), riaffermando ancora una volta il giudizio impietoso di Lanthimos sulla condizione umana, appare più beffarda che pedante.