In occasione del centenario della nascita di Ingmar Bergman, Stranger Than Cinema propone una serie di approfondimenti su alcuni dei film più iconici del maestro svedese. Gli articoli saranno pubblicati a cadenza regolare sul sito e convergeranno nella sezione apposita “Speciale Bergman”.
Il sogno
Fu lo stesso Bergman a dichiarare che l’idea per il film Sussurri e grida arrivò grazie ad una immagine (una donna in bianco in una sala piena di drappi rossi) che per quasi un anno continuava insistentemente a comparire e a scomparire nella sua mente: “Alcune immagini salgono in superficie senza che io sappia cosa vogliono da me, dopodiché spariscono per ricomparire anche dopo mesi, uguali a come mi erano apparse in origine”. Nel 1957, con Il posto delle fragole, Bergman cominciava a ripensare la relazione fra “mondo interno” e “realtà esterna” (quella che in Sussurri e grida, 1972, diverrà una dipendenza ancora più complessa ed ambigua) attraverso un percorso concettuale simile a quello che in quegli anni conduceva Alain Resnais a realizzare prima il suo acclamato Hiroshima mon amour (1959) e poi la sua logica prosecuzione teorica L’anno scorso a Marienbad (1961). È però Sussurri e grida a riprendere il tema del sogno de Il posto delle fragole, che in quel caso si inseriva semplicemente nel racconto e non ne costituiva la matrice fondamentale, per costruire una dimensione onirica dalla quale la narrazione non può più prescindere e nella quale il film nasce e si evolve.
Parole ed immagini
Nel 1972 sono passati ormai otto anni da Persona e Bergman ha ormai rimosso quasi ogni passaggio descrittivo dai suoi script, composti ora da dialoghi sempre più criptici e scritti in forme diverse da quelle che generalmente si seguono per la stesura di una sceneggiatura. Il copione di Sussurri e grida, infatti, si presenta in forma epistolare, con una serie di lettere scritte dal regista e rivolte alle attrici del film (il commento personale del cineasta nelle sue sceneggiature sarà un elemento presente anche nei testi degli ultimi anni e negli script più elaborati, come L’uovo del serpente o Sinfonia d’autunno). Questo progressivo cambiamento nel modo di scrivere le sceneggiature, che diventano via via sempre più simili ad indicazioni per gli attori che a veri e propri copioni, avviene parallelamente allo sviluppo di quelli che saranno i suoi primi film da camera, cominciando da Come in uno specchio nel 1960: pochissimi personaggi sullo schermo, ambiente solitamente ristretto o chiuso e la musica (eseguita sul set o scelta per la colonna sonora) come elemento di comunicazione fra i personaggi in sostituzione delle parole.
Le sceneggiature dei suoi “chamber films” testimoniano quindi una totale sovrapposizione fra il Bergman scrittore ed il Bergman regista e creatore di immagini. Analizzando i copioni dei suoi film da lui stesso pubblicati, infatti, si evince la preoccupazione di Bergman nell’indirizzare il lettore (che deve quindi “vedere” il film in assenza di uno schermo che ne mostra le immagini) verso la corretta interpretazione delle sue opere, con delle note personali che rendono i suoi script, nella loro versione disponibile al pubblico, molto simili a romanzi metanarrativi di stampo modernista. Così le sue sceneggiature costituiscono sia materiale letterario in grado di essere fruito indipendentemente dalla produzione cinematografica, sia fungono da “spartiti” che altri registi possono seguire per riprodurre correttamente la sua visione su schermo (è quello che avverrà negli ultimi anni della sua carriera con i film diretti da Bille August, Daniel Bergman e Liv Ullmann a partire da suoi soggetti).
I personaggi
È un piccolo gruppo di donne a comporre il nucleo d’azione di Sussurri e grida: la moribonda Agnes (Harriet Andersson), le sue sorelle Karin (Ingrid Thulin) e Maria (Liv Ullmann) ed infine la cameriera di casa Anna (Kari Sylwan). Il film descrive gli ultimi due giorni di vita di Agnes: la sua morte, il suo funerale, la sua “resurrezione”. A questi eventi si alternano flashback ed avvenimenti appartenenti al passato, che chiariscono la relazione di Agnes con sua madre, quella di Anna con i suoi figli e quella di Karin e Maria con i loro rispettivi mariti. Come già per la mungitrice di The Ghost Sonata, il ruolo di Anna (quello della cameriera, quindi una donna abituata a servire e ad aiutare) definisce il suo atteggiamento, altruista e premuroso, contrapposto a quello apatico di Karin, che vive la propria sessualità come mutilazione, al di fuori di qualsiasi dimensione materna. Maria, invece, che viene persino ripresa da Bergman nel letto con il pollice in bocca, è bambinesca come una Miss Julie e non è in grado di sopportare la sofferenza con espiazione quasi cristologica come fa invece Agnes, che dal suo giaciglio osserva con sguardo amorevole proprio Maria, che dorme anziché vegliare sulla sorella malata. Ad Agnes, che condivide lo stesso nome della figlia di Indra in A Dream Play, spetta per l’appunto il ruolo di “agnus dei”, l’agnello sacrificale. Come sempre avviene in Bergman, infatti, anche Sussurri e grida è ricco di riferimenti biblici, eppure sembra ancorato ad una dimensione umana (è Anna, non Dio, ad asciugare le lacrime della sua padrona morente) che ricorda proprio quella di The Ghost Sonata, in cui la speranza nella grazia divina di Strindberg viene sostituita dal regista svedese con la fede nell’amore umano.
I colori
Il rosso che domina ogni inquadratura è per stessa ammissione di Bergman un colore che si riferisce a “ciò che abbiamo dentro”, da intendere sia nell’accezione immateriale di “anima” che in quella anatomica di ventre. È quindi un colore che allo stesso tempo indica la morte (l’anima che si separa dal corpo) e la vita (la nascita che passa per il ventre materno). Non è un caso che la scena più iconica del film, quella che richiama la Pietà michelangiolesca, sia stata definita da Törnqvist (uno dei massimi studiosi di Bergman) proprio come una “complessa fusione fra vita e morte”. Bergman riprende lo stile espressionista di Munch (fra i pittori più apprezzati da Strindberg, che ancora una volta si rivela una figura centrale nella vita del regista svedese), che già aveva utilizzato in alcune sue opere precedenti, per accentuare la dimensione da sogno nella quale si svolge il film. Il rosso nei quadri di Munch come “The Dance of Life”, “Jealousy” o “Virginia Creeper”, riconduce alla passione e più in generale a tutte quelle emozioni che si manifestano in maniera libera e dirompente. Le dissolvenze al rosso segnano in Sussurri e grida il passaggio visivo che introduce ad alcuni momenti fondamentali nel passato delle protagoniste. Bergman quindi utilizza quello stesso rosso negli arredi della casa, indicando in maniera brillante come le conseguenze emotive di quei trascorsi siano per sempre chiuse fra le mura di quella abitazione.
La musica
La musica in Sussurri e grida assume un ruolo cruciale quando Karin e Maria, dopo i loro numerosi sfoghi, cercano di consolarsi a vicenda in una scena silenziosa nella quale chi guarda non può udire nessuna delle parole che le due donne si scambiano, a causa della musica del violoncello che suona Bach e che copre ogni cosa. L’uso che Bergman fa di Bach varia da film a film e se ne Il Silenzio, ad esempio, la sua musica assume un valore di fiducia e speranza in una condizione migliore, in Sarabanda (in maniera simile a quanto avviene nel film in analisi) accompagna l’illusione di una vicinanza desiderata ma non più possibile nei fatti fra padre e figlia. In Sussurri e grida è quindi la musica a coprire le parole (che assume un valore nella diegèsi, a differenza della mazurka di Chopin in altre scene del film) e non un rumore come quello che invece soverchia il dialogo fra Alma e la vecchia donna ne Il posto delle fragole.
Le parole fra Karin e Maria non sono necessarie perché non significano nulla né per loro né per chi guarda, essendo prive di senso, promesse e rassicurazioni che non sono sincere e non possono durare. Quella che avviene è quindi una riconciliazione fugace come quella dell’opera bergmaniana da palcoscenico di Madame De Sade, nella quale Anne e Renée si riappacificano raggiungendo una unione (che, proprio come nel film, quando le due donne si sfiorano a vicenda, è anche fisica) che scompare pochi secondi dopo. È difficile analizzare un lavoro per il cinema di Bergman, infatti, senza tener conto della sua prolifica esperienza teatrale: Sussurri e grida richiama da vicino alcuni temi propri delle Tre Sorelle di Čechov (ma anche de Il giardino dei ciliegi) e la macchina da presa si sofferma spesso su di una Casa di Bambole, rimando visivo all’omonima pièce di Ibsen del 1879.
Le mani
In una delle scene più famose del film Maria si guarda allo specchio e con orrore esclama di non riuscire a vedere la sua mano nell’immagine riflessa. Così come Karin si convince invece di essere superiore alla propria sorella, quindi in dovere di imporre il proprio dominio su di lei, per via delle grosse dimensioni delle sue mani. Proprio le mani sono da sempre una delle principali ossessioni di Bergman, che in maniera circolare compare nei suoi lavori: dalle mani di Pamina e Tamino che si congiungono per superare la prova del fuoco ne Il flauto magico a quelle del bambino che disegna i visi di Liv Ullmann e Bibi Andersson sullo schermo bianco in Persona (non a caso l’idea di quel film venne a Bergman osservando due donne su di una panchina comparare la forma delle loro mani). Come “grida” e “sussurri” convivono nella casa, così anche i ricordi e le azioni che invece si svolgono nel tempo della narrazione. Le sequenze reali e quelle invece riconducibili al sogno non sono scindibili in maniera chiara come ad esempio ne L’ora del lupo (in cui la voice-over guida il pubblico) e persino nella celebre sequenza della “resurrezione” della madre non c’è nessuna ardita trovata di montaggio o inusuale movimento di macchina ad identificare la dimensione surreale della scena (a differenza, ancora una volta, che nelle digressioni espressioniste del film del 1968) se non per il carrello a ritroso il cui spostamento tende ad esagerare le dimensioni del salone e ad esasperare la distanza effettiva che separa Anna dalla sala (in realtà piccolissima) in cui giace la sorella.
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