La prima scena di Ancora un’estate cattura e toglie il fiato: Anne, avvocatessa (Léa Drucker), interroga la sua cliente, una giovane minorenne (Romane Violeau) vittima di stupro, indugiando su questioni dolorose senza battere ciglio e senza un minimo di compassione, con una crudeltà che vuole però essere incoraggiante, dal momento che quelle domande dovrebbero essere - almeno in teoria - propedeutiche alla difesa. È un primo piano contro un primo piano, un faccia a faccia, che sarà l’elemento filmico costitutivo di questa nuova opera di Catherine Breillat, eccezionale nel rendere nuovamente rischiosa quella che è la sintassi di base del campo-controcampo cinematografico. Fin dalla prima sequenza di questo preciso e rigorosissimo film si capisce quindi che tutto il significato stavolta la regista lo ha riposto nel dialogo tra diversi punti di vista e di osservazione. Vediamo Anne (che è anche il nome della sorella, spettatrice impotente, della moglie di Barbablù, racconto fondativo che la regista francese aveva adattato nel 2009) raccogliere la testimonianza convulsa della giovane ragazza abusata e già in quel momento gli stacchi di montaggio diventano fondamentali per capire le dinamiche di potere.
La rigida avvocatessa, scopriremo ben presto, pur essendo specializzata nei diritti dei minori, consuma una relazione clandestina con un ragazzino, figlio del suo nuovo compagno: un giovanotto ingenuo e ignorante delle regole della buona società in cui si muove la sua famiglia. Ancora un’estate racconta prima di tutto di questo, della giovinezza passata e di quella presente, della maturità di una donna che è stata una ragazza seducente e che oggi è una signora malinconica ma non sconfitta, delusa, dalla vita. Lo fa con una classica narrazione in tre atti in cui la liaison proibita è solo fugacemente accennata prima di arrivare al capitolo finale, che è quello della menzogna, della negazione, del trionfo della borghesia in un buco nero di silenzio. La bellezza paradossale di questo film sta, infatti, specialmente nella benevolenza rispetto ad una donna che non fa nulla per non apparire detestabile, la fredda Fedra, né oggetto né vittima, né patetica preda né sadica tentatrice, sempre giustificabile - o, almeno, comprensibile - anche quando la vediamo diventare un mostro puritano che ricorda da vicino le protagoniste buñueliane della sua borghesia normopatica e sociopatica, tutta d’un pezzo.
È quella prima scena di “interrogatorio” a definire le due regole che il film si impone: quella della freddezza - a cui Drucker regala mille sfumature differenti - e quella di dover cogliere la verità nel gioco tra l’inquadratura e il suo “contro”, nella dialettica tra campo e controcampo che assume un significato ancora più decisivo nel culmine dell’atto sessuale, che - seguendo i nuovi codici di saggiste e teoriche femministe come Iris Brey - coinvolge attivamente lo spettatore nella decodifica delle immagini. In questo caso, stretti nei primi piani di un desiderio che chiude anziché liberare, ci si ritrova a far caso al punto di fuga degli sguardi, a mettere in discussione le scelte di regia, la decisione di rimanere fissi sul volto del ragazzo o su quello della donna durante l’amplesso, che è spesso terreno di “godimento asimmetrico” e di volatili esperienze di dominio. In un film che ci abitua sempre a considerare l’immagine da entrambi i lati della macchina da presa (filmico e profilmico, potremmo dire con espressioni vetuste), la fissità ostentata su questo o quel protagonista diventa una scelta che solleva dubbi, domande, ragionamenti, che rende ogni scena di intimità - potenzialmente banale, noiosa, passiva, voyeuristica - un enigma da risolvere.
È in quei momenti, inoltre, che comincia pian piano a venire fuori il gusto pittorico di Breillat, capace di cambiare prospettiva alla storia con un taglio di luce sul volto. In questo film dai colori inizialmente così “naturali”, in cui è il pallore dei visi a dare il senso di tutto, si giunge progressivamente ad un finale, girato in piano sequenza, in cui la fotografia di Jeanne Lapoirie sembra trovare una meravigliosa sintesi tra il contrasto caravaggesco, il suo buio totalizzante, e la dolcezza di Raffaello che affiora sulla pelle di questi due amanti che smettono finalmente di essere protagonisti di una narrazione che li consuma e diventano soggetti pittorici: perenni, imperituri, non più vittime del passare del tempo e delle stagioni. Un gesto espressivo che fissa per sempre quell’ultima estate citata nel titolo originale francese, in cui anche l’età - essendosi il tempo fermato - diventa un dato difficile da elaborare. Dal dramma piccolo-borghese costruito sulle spalle della prima grande tragedia francese sul tema incestuoso (era il 1677, per la penna di Jean Racine) alla grande pittura barocca italiana, il film di Breillat compie un viaggio audace nelle apparenze e nelle ambiguità.
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