Questo settimo film di Alien, ri-fondativo fin dal suo titolo, segue il modello ironicamente “goddardiano” di Quella casa nel bosco e di quella operazione “Monsters Unleashed” che abbassava improvvisamente ogni difesa per far entrare in campo un bestiario generosamente assortito e ben variegato di creature prima ingabbiate. Bestiario che in questo caso “musealizza” 45 anni di franchise e di relativi mostri, creando un’esperienza che assomiglia molto alla visita ad un museo delle cere, dove ogni stanza è dedicata a questa o a quell’altra creatura. Giocando moltissimo con la sua ambientazione - un’astronave, ovviamente, splendidamente ricostruita in quattro teatri di posa - e adattando al cinema i meccanismi sperimentati con successo nei videogiochi (Alien: Isolation), questo tributo di Fede Álvarez alla saga di Ridley Scott si gioca tutto sull’apertura o la chiusura tempestiva di porte, varchi, cancelli, da cui dipende la sopravvivenza degli stessi protagonisti ma anche la possibilità, per lo spettatore, di esplorare i diversi livelli di questa “casa infestata” così meticolosamente disegnata da essere in grado di comunicare credibilmente un proprio passato, un “vissuto” antecedente all’arrivo dei protagonisti. Álvarez pesca dai primi due leggendari capitoli, tra i quali Romulus cronologicamente si inserisce, e prosegue citando anche Alien 3 di Fincher e persino la sceneggiatura mai prodotta di William Gibson per il terzo film, in un “greatest hits” perfettamente mixato, anche se totalmente privo di quell’ambizione mitologica dei due prequel di Scott (Prometheus e Covenant). 

Semmai uno degli aspetti più interessanti, in questo film così ossessionato dalla prostetica, dagli effetti speciali “pratici” e dagli animatronics, è l’introduzione di un elemento di dirompente (persino fastidiosa) alterità con un personaggio interamente realizzato in una computer grafica che sembra quella luminosissima e levigata - ostentatamente esibita - del cinema di Zemeckis. Un personaggio che rappresenta un collegamento diretto con il primo capitolo ma che immediatamente percepiamo come problematico non solo per la sua sostanziale difformità visiva rispetto a tutto il resto, ma anche per la sua inessenziale funzione di fan service, di riverenza alle necessità commerciali per cui diventa lecito richiamare gli attori dall’oltretomba, attivando (volontariamente?) una riflessione su tutti i limiti di operazioni nostalgiche così glacialmente calcolate, per quanto ben eseguite. È sul finale, invece, che Álvarez tenta delle scelte inaspettate, virando sul body horror e seguendo la strada del tanto bistrattato Resurrection di Jeunet, che già nel 1997 fantasticava sul futuro ibrido dei corpi, tra mostruosità, umanità e meccanicità, riuscendo a dire qualcosa di significativo anche solo grazie all’utilizzo sapiente dell’effetto speciale e della tecnologia come intrusione visibile. E non è un caso che lo sceneggiatore di quel film fosse lo stesso del sopracitato Quella casa nel bosco, ovvero Joss Whedon, e che entrambi i film, come del resto anche questo Alien: Romulus, espettorassero tutto ciò che prima era stato tenuto dentro, esibendo ciò che prima era rimasto nell’ombra e custodendo in teche illuminate tutti quei corpi mostruosi di cui fino a quel momento non era mai stata del tutto chiara l’anatomia. Ciò che prima era subdolo, latente al piacere, veniva spalancato allo spettatore, sviscerato. Se la mostruosità segnalava un limite epistemico prima che biologico, implicando una sfida del pensiero, una impossibilità di rappresentazione fissata, definita, adesso il mostro è un modello infinitamente replicabile, che torna sempre uguale a se stesso. È un prodotto, come tutto il resto. Un giocattolo, per tornare nuovamente a Joss “Toy Story” Whedon.