Berlinale 74 | Parla il maestro Tsai Ming-liang: “Camminare è un atto di ribellione”
Decimo capito della serie Walker di Tsai Ming-liang, Abiding Nowhere è stato presentato alla Berlinale 2024 nella sezione Special. Stavolta il monaco che cammina a una velocità diversa dagli altri, imponendo la lentezza nel velocissimo mondo moderno, fa tappa a Washington D.C., con la collaborazione dello Smithsonian’s National Museum of Asian Art. Ne abbiamo parlato con il regista.
Tsai Ming-liang è oggi uno degli autori più prolifici e adorati dagli appassionati di cinema, ma anche dalle accademie e dai musei di tutto il mondo. Lo abbiamo incontrato per confrontarci con lui sul tempo che passa e sul cinema che cambia, adesso che sono trascorsi quasi vent’anni dallo “scandaloso” Il Gusto dell’Anguria, recentemente riproposto in versione restaurata, e che il progetto lunghissimo della serie “Walker” è arrivato finalmente al decimo capitolo, dopo essere stato oggetto persino di una prestigiosa retrospettiva al Centre Pompidou.
Nel 2011 il National Theater di Tapei invitò Tsai Ming-liang per la regia di uno spettacolo teatrale. Lee Kang-sheng, attore feticcio del regista, era nella sala prove quando cominciò a improvvisare una lentissima camminata che potesse condurlo da un lato all’altro del palcoscenico nel maggiore tempo possibile. Questo movimento commosse profondamente il regista, che subito decise che il prodigioso passo in slo-mo del suo attore non poteva rimanere confinato in quel momento, ma che doveva essere ripreso e reso oggetto di una serie di film. È così che, l’anno seguente, nasce la serie Walker, in cui Lee Kang-sheng, vestito come un monaco buddista, cammina in città e luoghi sempre differenti, desolati o affollati, remoti o nel centro di grande metropoli. Un gesto talmente lento da essere innaturale e da creare una suggestiva opposizione con il naturalismo delle immagini e delle luci naturali che agiscono sull’attore.
La nostra intervista ha coinvolto, oltre il regista, anche Lee Kang-sheng, ormai tutt’uno con il cinema di Tsai Ming-liang, forza motrice di tutti i lavori del maestro taiwanese, e il giovanissimo Anong Houngheuangsy, già protagonista del premiatissimo Days e del precedente capitolo della serie Walker.
D: I suoi film, specialmente quelli della serie Walker, possono essere visti sia in sala, al cinema, che nei musei, come videoinstallazioni. In che modo pensa che il luogo di proiezione influenzi l’esperienza dello spettatore?
Tsai Ming-liang: La mia idea iniziale era quella di realizzare dieci film di questa serie, da quando ho visto per la prima volta Lee Kang-Sheng muoversi in questa maniera così lenta e seducente. Volevo che camminasse in dieci luoghi differenti, in dieci film realizzati lungo dieci anni di attività. E fin dall’inizio avevo previsto la collaborazione dei musei, cosa che però ha cominciato a verificarsi solo dopo il quinto film della serie, quando sono iniziati ad arrivare gli inviti per mostre ed esposizioni. Adoro l’atmosfera che si respira in un museo, perché in quel caso il camminare del protagonista non è solo un camminare nella location in cui abbiamo girato, ma anche un camminare nelle stanze del museo che ospita le installazioni, sia metaforicamente che realmente, dal momento che abbiamo cominciato ad organizzare delle vere e proprie performance dal vivo. E così anche gli spettatori, i visitatori, camminano incessantemente, non sostano per più di qualche minuto davanti al singolo film, decidono loro autonomamente in che maniera fruire di quell’esperienza. Proiettare un film della serie Walker al cinema è invece qualcosa di completamente differente, perché la gente deve rimanere in sala fino alla fine del film. E siccome io credo che ogni film di questa serie sia un modo per vivere e sperimentare il buddismo, l’esperienza in sala è probabilmente quella che preferisco. Gli spettatori che vanno al cinema si aspettano di vedere dei contenuti e invece si trovano davanti quest’uomo che cammina nello spazio. Nient’altro. Proiettare questi film in sala è un modo anche per sfidare le aspettative dello spettatore, ampliare le possibilità di cosa si può vedere al cinema. In un museo si è già maggiormente predisposti a questo genere di esperienze.
D: Dallo scorso film della serie, si è aggiunto un secondo personaggio, quello di Anong. Si passa quindi da un personaggio all’altro, in un dialogo invisibile tra le diverse scene. Cosa è cambiato per lei con l’aggiunta di un nuovo attore da seguire?
Tsai Ming-liang: Vorrei poter rimettere le mani sul nono film, dopo aver realizzato questo decimo (ride). Nel nono capitolo, in cui compare per la prima volta Anong, ho probabilmente esagerato, utilizzando questa aggiunta in maniera fin troppo narrativa. Mi sono lasciato prendere la mano, perciò adesso ho voluto cambiare. Mi interessava che le loro strade non si incontrassero mai. Anche perché il percorso che ho fatto con questi dieci film è stato un percorso di progressiva sottrazione. Ho ridotto la musica, i dialoghi, le storie che venivano anche solo suggerite. In questo decimo film ci sono due uomini che camminano, solitari, senza che ci sia alcuna relazione apparente tra di loro. Non c’è modo di immaginare un collegamento tra queste due vite. Sono dieci film singoli, ma è il processo creativo che crea una narrazione che li tiene insieme, un legame tra loro. La prima volta in cui questi film sono stati mostrati insieme è stato in un museo di Ginevra, dove i primi cinque capitoli sono stati proiettati su dei monitor installati a poca distanza gli uni dagli altri. Questo ha creato una sovrapposizione molto interessante dei suoni. Una cacofonia che però non era fastidiosa, ma anzi dava nuovo senso a quello che avevo fatto fino a quel momento.
Anong Houngheuangsy: L’esperienza sul set con Tsai Ming-liang è assolutamente tranquilla e piacevole. È come essere in famiglia, con il regista ma anche con il resto della troupe, che spesso aiuto nel trasportare le attrezzature e in altre piccole mansioni. Io lavoro in un ristorante, quindi il mondo del cinema è qualcosa di nuovo per me, che ovviamente mi affascina molto. Nella mia vita sono uno spettatore appassionato, ma generalmente sono un consumatore di film commerciali, commedie romantiche, cose di questo tipo… in questo caso, l’esperienza è assolutamente differente, è come se non ci fosse una cesura vera e propria tra la mia vita reale e il momento in cui comincio a recitare davanti alla macchina da presa. All’inizio è stato un po’ difficoltoso, dal momento che non ero abituato a questo tipo di cinema sperimentale, ma con il passare del tempo ho cominciato a capire più profondamente l’approccio utilizzato dal regista.
D: La serie Walker nasce in realtà da un’opera teatrale messa in scena a Taiwan ormai tredici anni fa, ovviamente con Lee Kang-Sheng. Che cosa ricordate di quell’esperienza e quale fu la reazione del pubblico?
Tsai Ming-liang: Devo dire che il pubblico taiwanese fu molto gentile. Loro riescono a resistere a qualsiasi cosa che venga proposta sul palco (ride). Ma ovviamente ogni pubblico reagisce in maniera differente. In quel caso, Lee Kang-Sheng impiegò più di mezz’ora ad attraversare il palcoscenico dalla sua destra alla sua sinistra. Non c’erano effetti di luce, non c’era musica, non c’erano altri attori. Eppure nessuno si alzò dalla sedia…
Lee Kang-Sheng: Inizialmente questo movimento doveva veicolare una trasformazione. Camminando, mi sarei dovuto trasformare nel padre di Tsai Ming-liang. Avevamo chiesto aiuto ad alcuni coreografi del Cloud Gate Dance Theatre per mettere in scena questa trasformazione, veicolarla attraverso il movimento, ma le loro proposte non avevano funzionato. Fu a quel punto che provammo questa camminata lentissima. Dovevo arrivare lentamente a un tavolo posizionato dall’altro lato del palco e lanciare in aria i fiori che erano poggiati lì.
D: Girare questo tipo di film è un’esperienza faticosa per il fisico?
Lee Kang-Sheng: Ci vuole parecchia forza e resistenza per girare queste lunghissime scene di camminate. Infatti attendo sempre con ansia il momento in cui il regista mi dica “Stop!”, perché non ce la faccio più. In quei momenti, quando il mio fisico comincia a non reggere più, ripasso nella mia mente le parole dei Sutra, le antiche scritture buddiste, che mi aiutano a resistere e a perseverare nonostante il dolore che provo.
D: Sembra che film come questi non possano esistere se non con l’immagine digitale, nitidissima. Con le moderne attrezzature che permettono un controllo quasi totale sui parametri dell’immagine. È così?
Tsai Ming-liang: Il digitale consente di non avere limiti nella durata delle scene, cosa che si ha invece con la pellicola. Io lavoro come un pittore, quindi con le videocamere digitali mi è più facile impostare alcuni degli elementi che voglio controllare direttamente nelle mie immagini: per esempio i colori. Creare la giusta atmosfera. E ovviamente anche la leggerezza di queste attrezzature mi consente di viaggiare tra luoghi differenti con più facilità. Nonostante ciò, sono un regista molto meticoloso, che controlla tutto. Dedico molto tempo alla pre-produzione dei miei film e ai sopralluoghi. Quindi, nonostante il digitale me lo consenta, non giro mai troppo materiale, ma solo quello che mi è utile. Per esempio in No No Sleep, che abbiamo girato in Giappone, dovevamo realizzare una scena a Shibuya, ma c’era troppa gente per i miei gusti. Così abbiamo aspettato che arrivasse la notte per poter filmare solo i treni della stazione, che era ciò che mi interessava realmente, senza tutta quella gente attorno.
D: Alla Berlinale è stata riproposta, nella sezione Classici, la versione restaurata de Il Gusto dell’Anguria, uno dei vostri film più conosciuti e discussi. Cosa ricordate dei tempi della sua uscita e delle reazioni che ne seguirono?
Lee Kang-Sheng: Abbiamo viaggiato davvero molto per questo film. Siamo stati al Palace Museum di Taipei, a Kaohsiung… Ero più giovane, il mio fisico era più vigoroso, quindi fu un’esperienza piena di vitalità, di gioia, di danza. Anche se ci furono dei problemi, ad esempio per la scena nella cisterna, che era fatta di fibre di vetro, che mi provocarono una forte reazione allergica sulla pelle.
Tsai Ming-liang: Nel 2005 c’era ancora la censura a Taiwan. Non era così rigida, ma il mio film fu considerato scandaloso e mi chiesero di tagliare alcune scene. Ovviamente mi rifiutai, anche perché non pensavo si potessero spingere al punto di bloccare completamente il film, soprattutto dopo la vittoria dell’Orso d’Argento qui alla Berlinale. Alla fine, il comitato di censura, composto da quindici “giudici”, si espresse a favore del film: nove contro sei. Il film uscì comunque con una valutazione R, cosa che impediva a numerosi studenti di poter andare in sala. In quel caso, furono gli insegnanti a mobilitarsi, decidendo di mostrare il film ai loro alunni. C’è sempre stato un grande interesse accademico nei confronti del mio lavoro a Taiwan.
D: Crede siano ancora così rilevanti oggi i festival cinematografici? Un premio vinto qui o altrove può cambiare le sorti di un film, anche in contesti come quelli che ci ha descritto?
Tsai Ming-liang: Sì, ne sono assolutamente convinto.
D: Oggi esistono delle figure specifiche, che sono i coordinatori di intimità, per facilitare la realizzazione delle scene di sesso più esplicite. Come fu l’esperienza sul set de Il Gusto dell’Anguria?
Tsai Ming-liang: Per il film lavorammo con delle porno attrici provenienti dal Giappone e fu un’esperienza completamente nuova per tutta la troupe. Ed è per questo che ci sono quelle angurie, per poter coprire i genitali delle attrici e consentire a Lee Kang-Sheng di recitare tranquillamente senza imbarazzi. All’epoca non c’erano coordinatori dell’intimità e quindi si doveva creare un clima di fiducia tra me e gli attori. Le attrici erano convinte di dover girare un porno, ma dopo le prime scene capirono che si trattava in realtà di un film art-house.
D: Tornando, in chiusura, alla serie Walker, la domanda a questo punto è d’obbligo. La serie si ferma qui, adesso che ha realizzato i dieci film che aveva originariamente in mente, o è destinata a proseguire?
Tsai Ming-liang: Mi piacerebbe continuare (ride). Vorrei filmare Lee Kang-Sheng fino a quando lui non potrà più camminare. L’ispirazione per il mio “camminatore” viene dal monaco del settimo secolo Chen Xuanzang, vissuto durante la dinastia Tang. Questo monaco cominciò un faticoso viaggio lungo la via della seta, verso Occidente, per poter ottenere accesso ai testi originali del buddismo in sanscrito. Un viaggio che appunto aveva un suo scopo inizialmente, ma che col passare del tempo divenne sempre meno rilevante. L’esperienza del viaggio aveva preso il sopravvento. Il viaggio stesso era diventato lo scopo di quell’esperienza. Nei miei film, camminare è diventato quasi un atto di ribellione. Camminare così lentamente in un mondo che va veloce... Un atto di ribellione su quello che possiamo vedere e sulla velocità delle immagini, che spinge lo spettatore a mettere in discussione la velocità del cinema, le cose che si possono mostrare con esso.