A cura di Mauro Tessarolo
Raramente abbiamo conosciuto film nati sotti una stella peggiore di The Flash, tra una sceneggiatura passata per 45 (letteralmente) mani differenti e un regista, Andy Muschietti, entrato nel progetto come ottava o nona scelta della Warner dopo che tutti gli altri (James Wan, Lord & Miller, tra i tanti) avevano abbandonato la nave. Come se non bastasse, arriva in sala come coda del più gigantesco fallimento cinematografico degli ultimi anni, quello del DC Extended Universe: una storia fatta di strategie sbagliate, scivoloni, litigi, film usciti due volte (Justice League) e film cancellati anche se completati e pronti per uscire (Batgirl). Anche The Flash, infatti, è uno dei tanti progetti che si sono trovati tra l’incudine e il martello della nuova direzione assunta da James Gunn e Peter Safran: praticamente pronto, ma con zero interesse nel farlo uscire. Anche perché, nel frattempo, l’attore protagonista (Ezra Miller) aveva reso praticamente impossibile promuovere il film.
Cosa fare quindi? Utilizzarlo come gigantesco detonatore per fare tabula rasa del sempre più caotico e raffazzonato DCEU, diventato una zavorra a causa dei continui ripensamenti su come gestirlo. E così, prendendo spunto dalla miniserie a fumetti Flashpoint, che era servita proprio a resettare l’universo dei supereroi prima del New 52 (l’iniziativa editoriale che nel 2011 decise di rilanciare tutte le serie DC), si è cercato uno stranissimo equilibrio tra autorialità e piani aziendali. Il risultato, contro ogni pronostico, è un film inventivo, piuttosto bizzarro nella sua sciatteria, che riesce comunque a dare un significato originale al doloroso scenario del multiverso che affligge tutti i film di supereroi in questi ultimi anni, non puntando sull’effetto accumulazione e moltiplicazione, ma facendo pesare la “sostituzione” continua dei vari personaggi: allo stesso tempo traumatica ed eccitante per gli spettatori (ovviamente, in questo, c’è anche un commento metatestuale su come ha funzionato - male - l’universo cinematografico di casa DC e la gestione degli attori). The Flash diventa così un inno alla possibilità di rielaborare continuamente una materia rammendata, riscritta, rimontata, riappiccicata e comunque, alla fine, in qualche modo, farla funzionare. Il film, non a caso, pone al centro della sua narrazione un lutto da riparare ed è attorno a questo preciso momento che costruisce una trama che attira altri lutti di passaggio, altre rotture da incollare, altri tessuti da ricucire. Come quel vecchio costume di Batman che uno dei doppi di Ezra Miller ridipinge di rosso per dargli una nuova funzione, tagliando le piccole orecchie da pipistrello. Insomma, un film che fa della ricombinazione, anche grossolana, dei suoi elementi la propria poetica.
The Flash è, quindi, il pulsante da premere per un clamoroso azzeramento ma paradossalmente, tra le pieghe della sua trama, spiega come sia essenzialmente inutile resettare ogni volta la timeline. Che forse sarebbe meglio accettare il fallimento e ricominciare da quello. In un terzo atto che ricade, alla lettera, dentro Man of Steel del 2013, esplode una computer grafica di bassissima fattura che simula all’infinito il sadico meccanismo della “battaglia finale contro il villan” - imprescindibile in ogni opera Marvel o DC - in cui i personaggi perdono qualsiasi profondità emotiva e diventano pedine sullo scacchiere dello spettacolo, pronti per essere sacrificati perché comunque non si avrà il tempo o i soldi per continuare ad approfondire le loro storie (d’altronde è lo stesso mercato del fumetto che funziona così, in cui si inizia una storyline e poi la si abbandona perché è cambiato il team creativo o in cui si decide di far morire un personaggio senza tante cerimonie perché è finito il budget per la sua testata).
Nonostante ciò, pur essendoci nel film di Muschietti tutta l’impotenza di un regista che sembra aver perso le redini di un progetto che, ad un certo punto, qualcuno ha deciso di non ultimare (anche a livello tecnico, di post produzione e fotografia), la DC non ne esce completamente con le ossa rotte. Evocando davanti agli occhi dello spettatore tutto lo star system che nei film passati, in quelli più recenti e persino in quelli mai realizzati, è stato coinvolto a vario titolo nei lavori dello studio, riesce comunque a dare l’idea di una residua influenza culturale e produttiva, di un capitale impossibile da dilapidare nonostante infiniti passi falsi.
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