Il palmarès di Cannes 75 riflette una indecisione ormai cronica sul cinema che si vuole rappresentare
Quello che l’anno scorso sembrava solo un sintomo da tenere sotto stretta osservazione, quest’anno si conferma come un problema ormai cronico: il Festival di Cannes è prigioniero dell’indecisione su ciò che vuole essere e sul tipo di cinema di cui vuole farsi testimone. Lo scorso anno era emersa in maniera evidente una situazione di stallo in giuria, che aveva dovuto premiare quasi tutti per non scontentare nessuno: quattro film ad ex aequo raccontavano bene le divergenze in fase di valutazione e potevano essere giustificati solo con l’atmosfera generosa di “festa” e “celebrazione” dopo l’anno di pausa forzata a causa del Covid.
Il dubbio di Cannes 74 era se consacrare il valore di autori già affermati (Farhadi o Weerasethakul) oppure scommettere sul cinema “del futuro”, quello ad esempio di Kuosmanen e Lapid, che spesso Cannes ha cullato con successo in Quinzaine o in UCR, più di quanto non abbia fatto negli anni il festival di Venezia. Una titubanza che non riguardava superficialmente i “nomi”, ma rifletteva una esitazione su quale tipologia di film rappresentare nel palmarès: quelli narrativamente lineari (A Hero e Hytti nro 6) o più sperimentali (Ahed’s Knee e Memoria)? Nonostante i tanti ex aequo, però, l’assegnazione della Palma d’Oro a Titane sembrava lanciare un messaggio poco fraintendibile: Julia Ducournau era, in quel momento, una regista relativamente poco conosciuta a livello internazionale, che Thierry Frémaux ha voluto premiare inserendola in Concorso dopo l’esordio di Raw (presentato sempre a Cannes nel 2016 nella Semaine de la Critique) e sulla quale il Festival aveva esplicitamente scommesso.
Il messaggio lanciato dalla giuria presieduta da Spike Lee, che aveva alla fine favorito un film così distante dall’idea che tutti, nel bene e nel male, avevano di quel premio, non sembra però essere stato accolto dalla giuria di quest’anno, presieduta dal francese Vincent Lindon (protagonista proprio di Titane). Quello che emerge dal palmarès della 75esima edizione del Festival di Cannes è una indecisione che persiste e si aggrava: la giuria ha optato anche quest’anno per due ex aequo, dieci film su ventuno a premio, compreso quello dei fratelli Dardenne, che in ventitré anni di carriera hanno accumulato quasi tutti i riconoscimenti esistenti al festival, ma che si è ritenuto comunque di dover premiare ancora inventandosene uno nuovo: quello del 75esimo anniversario. In un concorso pieno di vecchie glorie con grandi filmografie alle spalle, la giuria ha scelto di consegnare il massimo riconoscimento a Ruben Östlund per un film (Triangle of Sadness) in cui una visione politica molto semplice e molto infantile è lanciata in faccia al pubblico, in cui personaggi odiosi e volgarmente ricchi si rigirano nel loro vomito per il facile godimento dello spettatore. Il cineasta svedese entra così, con pochi film all’attivo e all’età di 48 anni, nell’ambitissimo (e ristrettissimo) club di quelli che hanno ricevuto due volte la Palma d’Oro.
Solo il tempo ci dirà però se il suo nome acquisirà la forza per essere messo sullo stesso piano di Coppola, Imamura, Kusturica, Michael Haneke e Ken Loach (e ovviamente Dardenne!), o se invece la “doppia Palma d’Oro” sarà ricordata come una inspiegabile coincidenza come nel caso di Bille August. La giuria ha preferito quindi Triangle Of Sadness a Decision To Leave, che pure ha premiato per la regia (quindi evidentemente apprezzato), ritenendo più giusto dare una seconda palma ad Östlund rispetto ad una prima a Park Chan-wook. Le motivazioni alla base di questo ragionamento rimarranno probabilmente ignote per sempre.
Il resto dei premi è andato un po’ in tutte le direzioni possibili, con l’effetto di moltiplicare i secondi classificati e dimenticare alcuni grandi registi (Cronenberg, Reichardt e Mungiu non hanno presentato i loro film migliori, ma hanno comunque confermato l’unicità del loro sguardo). Il doppio Grand Prix a Close di Lukas Dhont e Stars at Noon di Claire Denis (uno dei peggiori film del concorso) sembra ancora una volta il risultato di una difficoltà nella decisione, che in qualche modo riduce la carica simbolica di ciascuna delle due scelte. Non è stato dimenticato il bellissimo EO di Jerzy Skolimowski, ma anche in questo caso fargli condividere il Premio della Giuria con il morigerato e formattato Le Otto Montagne, bromance alpina di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, equivale a rendere invisibile la radicalità della decisione.
Il palmarès appare sensato quasi esclusivamente nelle categorie attoriali, con i premi assegnati a Zar Amir Ebrahimi in Holy Spider di Ali Abbasi (nel ruolo di una testarda giornalista nell’Iran misogino e violento) e Song Kang-ho in Broker di Hirokazu Kore’eda (un riconoscimento per il ruolo in sé, ma anche retrospettivo, dal momento che il suo volto è diventato famoso nel mondo, nonostante una lunga carriera, grazie alla Palma d’Oro 2019, ovvero Parasite di Bong Joon-ho). Non stupisce che siano questi due riconoscimenti quelli più a fuoco, considerando una giuria composta prevalentemente da attori e attrici: lo stesso presidente Lindon, ma anche Rebecca Hall, Deepika Padukone, Noomi Rapace e Jasmine Trinca.
Insomma, il cambiamento tanto atteso, una presa di posizione davvero chiara e netta sul tipo di cinema che il Festival di Cannes vuole premiare e valorizzare, è rimandata al prossimo anno. Nel frattempo, però, la centralità del festival francese nel panorama cinematografico mondiale è sempre più in discussione.