Vittoria è un film che trova il respiro del reale, la commozione lontano dal sentimentalismo
Si fa sempre più stratificato e interessante l’universo narrativo di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, che in Torre Annunziata hanno trovato il luogo d’elezione del loro cinema come lo è stato Gioia Tauro per Jonas Carpignano. Vittoria, infatti, utilizzando termini probabilmente inadatti a questo tipo di cinema, è a tutti gli effetti uno spin off del precedente Californie, a sua volta spin off di Butterfly, documentario sulla giovane pugile Testa. Come Californie si concentrava su Jamila, “personaggio” secondario di Butterfly, allo stesso modo ritroviamo in Vittoria una figura già apparsa in Californie, quella di Marilena “Jasmine” Amato (che a Torre Annunziata lavora come parrucchiera in un salone di bellezza chiamato proprio Californie). Fedele al loro approccio rigoroso alla realtà, i due registi scelgono anche per questo secondo lungometraggio di “finzione” di non ingaggiare attori professionisti, ma di far recitare i veri protagonisti della storia che raccontano, che si ritrovano così a rielaborare davanti alla macchina da presa memorie, momenti, sentimenti, che hanno davvero vissuto e che adesso vengono rimaneggiati alla luce delle possibilità che apre l’utilizzo della scrittura cinematografica. Nonostante il potenziale carico emotivo del film, gli spunti drammatici che la vicenda offrirebbe, Kauffman e Cassigoli scelgono di rinunciare al buonismo ostentato dei sentimenti, ma invece raccontano con mano leggera di un desiderio (quello di adottare una “bambina”, dopo tre figli maschi) che non è necessariamente razionale o imposto da cause biologiche (l’impossibilità di avere figli, come accade in molti casi di coppie che scelgono la via dell’adozione) e che può essere persino dettato da motivi talmente intimi, imperscrutabili, da apparire egoistici (così come dimostra la preoccupazione della donna rispetto alla possibilità di adottare una bambina con disabilità).
L’ambito famigliare in cui vive Jasmine è tutto maschile, ma di una mascolinità non stereotipata, persino remissiva (il marito), fragile (il figlio con l’ansia rispetto al venir meno delle attenzione materne davanti a una nuova bambina da accudire), più spaventata dal cambiamento che ostile ad esso per ragioni di prepotenza. E non è un caso che sarà proprio una figura maschile a fare il passo decisivo, coprendo quell’ultimo miglio davanti al quale anche la protagonista, fino a quel punto inscalfibile nelle proprie convinzioni, apparirà titubante. Ed è in questi passaggi che si rivela vincente la scelta di ricorrere ad attori non professionisti, di raccontare le persone per quelle che sono e per quelle che erano in precedenza, come se fossero presenze costantemente doppie, in cui la loro rinnovata consapevolezza davanti alla macchina da presa, nel ruolo di “personaggi”, si portasse appresso sempre il fantasma di ciò che sono state nel momento in cui quelle scelte le hanno dovute affrontare realmente. Non è possibile chiedere a loro - comunque bravissimi - showcase attoriali, prove di forza nell’esternare i sentimenti su schermo, ed è quello che permette poi, nel punto giusto della trama, di rivelarli diversi da quello che pensavamo, di creare stupore attraverso un gesto inaspettato, nella rivelazione di un impeto - o di un dubbio - che covava dentro di loro ma che non era percepibile prima sui volti e nelle azioni. Lo spettatore capisce immediatamente la difficoltà di questa immedesimazione in sé stessi, che sfugge alla tentazione di fare dell’autoterapia ma che invece si apre all’altro (al pubblico) in una maniera talmente naturale, spontanea, da commuovere. Quello di Kauffman e Cassigoli è un cinema che, concentrando l’attenzione su un fenomeno, non compie l’errore di isolarlo resecandolo dal resto a cui è intimamente connesso, scindendo l’intelligenza analitica dall’intelligenza contemplativo–poetica attenta alla complessità dei processi, ma invece radica l’analisi in un contesto ben preciso: quello di una comunità messa in scena senza infingimenti o intermediazioni, che alimenta la creazione cinematografica in una relazione di complicità e mutualità.