Vice somiglia ad un “political drama” di Aaron Sorkin montato da Michael Moore
La vera forza de La Grande Scommessa era la sua idea di base, quella di usare richiami e simboli “pop” per spiegare qualcosa (in quel caso l’economia) che da sempre si considera comprensibile da pochi, ma che invece influenza il modo di vivere anche di quelli che non la capiscono o che decidono di infischiarsene. Usava quindi il carisma dei divi e delle dive che si affacciavano sullo schermo (come personaggi di cinema o come persone reali) per spiegare al pubblico ciò che magari era poco “cool”, ma necessario conoscere. Eppure La Grande Scommessa era un film pedagogico in modo fasullo, perché le nozioni che cercava di rendere chiare si accumulavano fino a sovrapporsi e a divenire inafferrabili, arrendendosi all’evidenza che non è sempre possibile capire ogni cosa. Così la nuova opera di Adam McKay, Vice, è solo in apparenza un biopic su Dick Cheney, ma invece sembra proseguire proprio il discorso de La Grande Scommessa su come le decisioni di pochi (o persino di singoli) possano avere conseguenze dolorose per milioni di persone che di quelle decisioni sono all’oscuro. E anche Vice, come quello del 2015, è un film di “omissis”, che ci nega alcuni passaggi della narrazione (anche cruciali) perché impossibili da ricreare su schermo se non ricorrendo alla finzione e all’invenzione. Se ne La Grande Scommessa persino i personaggi che padroneggiavano quei principi economici finivano per trovarsi dinanzi a cose inspiegabili, che accadevano anche se nessuno riusciva a dar loro un senso, le mancanze di Vice si devono invece ad una mancanza di conferme nel reale (come avviene nei documentari).
Ma il nuovo film di McKay è comunque mosso dal desiderio di spiegare qualcosa ad un pubblico che lo guarda per imparare (nello specifico, per conoscere il ruolo di Cheney nella presidenza Bush e nei piani americani successivi all’11/9). Si capisce da come la narrazione si fa più carica ed energica, che è su quel passaggio della carriera di Cheney che McKay vorrebbe far luce. Così Vice appare come un enorme prodromo a quella elezione del 2001 (forse fasulla per via di numeri privi di convalida) e a quella guerra in Iraq (che fasulla lo era per davvero, sulla base di una narrazione non vera, proprio come quella del film di cui si parla).
Emerge invece chiara dalla visione del film la voglia di McKay di rendere “comico” ciò che invece non lo è e nemmeno lo sembra, piegando ai suoi bisogni il mezzo filmico. Vice somiglia ad un “drama” di Aaron Sorkin a cui ha messo mano Michael Moore. Nessuna delle scene principali è ridicola di per sé, ma lo diviene grazie all’associazione di immagini. A differenza delle sue commedie demenziali, in cui erano invece le gag dei personaggi a far ridere senza le ingerenze della messa in scena, il (falso) biopic di McKay si affida ai mezzi propri del cinema per rendere ilare qualcosa che non lo è fin dall’inizio (anche con delle idee visive riprese da suoi vecchi film, come The Other Guys). Ed è così che forse si spiega l’assenza di Will Ferrell in un ruolo, quello di George W. Bush, che invece lo ha reso celebre (grazie proprio ad uno show di Broadway a firma Adam McKay) e che ora invece ricopre Sam Rockwell (la cui presenza scenica, a differenza di quella di Ferrell, non è di per sé sinonimo di qualcosa di ridicolo).
Il Dick Cheney di Bale non è umano ed è forse il solo personaggio mai davvero leggibile (quando invece sua moglie Lynne si apre al pubblico, scoprendosi fragile). McKay quindi sceglie di non aderire ad una delle regole principali del genere biografico (creare una parabola umana che sia per ovvie ragioni unica, ma anche universale) e finisce per rendere “speciale” ed indecifrabile un personaggio che invece dovrebbe apparire mediocre ed ordinario. Così anche la narrazione in voice-over, di cui si fa carico un personaggio secondario che rivelerà il proprio ruolo solo sul finale, sembra rispondere più ad una esigenza di commedia e di ricerca della freddura, che ad un’idea precisa su quale messaggio si vorrebbe veicolare.
Le cose più complesse del film, quelle che la narrazione di McKay non riesce a digerire, emergono sul viso di Bale e nella sua ennesima prova di grande pregio, in cui sembra riuscire a rivelare quello che c’è da sapere sul personaggio anche solo aprendo la bocca in una precisa maniera o con un sorriso obliquo e privo di grazia. Incapace (come i villain più classici e bidimensionali) di provare emozioni anche dinanzi alle sciagure più enormi, quello di Bale è però un personaggio che sembra davvero “credere” in ciò che fa, a differenza del suo collega Rumsfeld. Non è il cinismo (o almeno non solo quello) a muovere le sue azioni, ma le proprie convinzioni dozzinali ed una inusuale ideologia che non ha le sue basi nelle idee personali del personaggio, bensì in ciò che gli accade.