Un bel mattino | il film di Mia Hansen-Løve contro l’orizzontalità della rassegnazione
Nel cinema di Mia Hansen-Løve, il tema è quasi sempre quello dell’esistenza che prosegue dopo l’esperienza del lutto e come questa venga cambiata e scossa dal trauma della scomparsa di una persona cara. Che si tratti di una storia d’amore (Tout est pardonné, 2007, Un amour de jeunesse, 2011, Bergman Island, 2021) o di una vita spezzata (Le Père de mes enfants, 2009, Eden, 2014, L’Avenir, 2016), spesso a venire meno è una figura di autorità maschile (un amante più anziano, un padre o un grande regista), il cui vuoto crea la possibilità, per chi resta, di un’emancipazione e dell’emergere di una propria personalità. Il suo nuovo film estende questa ossessione adattandola alla storia di Sandra (Léa Seydoux, mai con così tanto spazio a disposizione per dimostrare le proprie capacità). Interprete, madre di una bambina rassegnata dalla prospettiva di non poter più provare un sentimento folgorante, si trova a vivere un’improvvisa e travolgente storia d’amore con un amico perso di vista e ora sposato (Melvil Poupaud nei panni di uno stanco playboy), proprio nelle settimane in cui si trova ad accudire suo padre (Pascal Greggory), affetto da una terribile malattia degenerativa, negli ultimi giorni della vecchiaia.
Pur non essendo nettamente diviso in due differenti sistemi di rappresentazione come lo era Bergman Island, anche Un Bel Mattino si colloca tra due tensioni opposte: lo sconvolgimento della passione che torna inaspettatamente e si contrappone al lutto per un genitore che sta morendo. Un uomo arriva e un altro se ne va. Una cosa muore mentre un’altra (ri)nasce. Ma i due film hanno in comune anche la questione dell’eredità e del suo relativo tradimento. Allo stesso modo in cui Chris guardava al lavoro di Bergman con un misto di irriverenza e rispetto, vicinanza e presa di distanza, Sandra, il personaggio di Léa Seydoux, mantiene qui con l’eredità di suo padre un sentimento contemporaneamente di attaccamento e rinuncia. Tutto ruota attorno alla domanda su cosa fare della biblioteca dell’anziano intellettuale, ex professore di filosofia, i cui libri conservati in casa sono ormai l’ultima traccia del suo pensiero, quello che la malattia ha progressivamente disinnescato e reso innocuo. Un patrimonio che Sandra vuole custodire, pur accettando di doversene fisicamente disfare.
Nella galleria di grandi giornalisti, filosofi, cineasti, musicisti, architetti, scrittori e ricercatori che popolano il cinema di Mia Hansen-Løve, la professione di Sandra, quella di traduttrice, ne definisce immediatamente l’impossibilità di imporre la propria voce, la necessità di doversi fare sempre veicolo delle esigenze, delle emozioni e delle parole altrui. È un cinema di resilienza, ma non nella accezione che intende il presidente Macron, presente nel film sullo sfondo della crisi dei gilet gialli, che vorrebbe che tutti accettassero la realtà per quella che è piuttosto che avere l’ambizione di cambiarla. Ma intesa come forza di volontà che permette di superare shock traumatici aprendo prospettive insospettate, di opporsi all’orizzontalità (sessuale e ospedaliera) che ancora al letto, di tornare in piedi e cominciare a correre, salire in alto e ribaltare la prospettiva. Non più supini a guardare il soffitto, ma vicini al cielo, con gli occhi rivolti sul mondo che sta più in basso.
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