Tori e Lokita | un film dal movimento incessante, sempre più avanti di ciò che mostra
Era il 2008 quando Luc Dardenne si interrogava, nelle sue riflessioni scritte sul cinema, su come «filmare un intreccio narrativo senza perdere la vibrazione dell’inquadratura, senza cadere nella costruzione di inquadrature al servizio di una storia, continuando a restituire la presenza di un corpo, di un oggetto che non si lascia dissolvere dal racconto che avanza». A distanza di molti anni, con il nuovo Tori e Lokita, firmato ovviamente assieme a suo fratello Jean-Pierre, sembra finalmente di trovarsi davanti a quel film all’epoca solo teorizzato. Uno che non si compone banalmente di inquadrature di questo o quello, ma in cui questo o quello diventano l’inquadratura stessa. C’è qualcosa di estremamente commovente nella semplicità, cinematografica e narrativa, con cui i fratelli Dardenne mettono in scena le vicende di due giovani migranti, una ragazza del Camerun e un ragazzino del Benin più piccolo di lei, che si sono conosciuti per caso nel corso del loro lungo e doloroso tentativo di raggiungere l’Europa.
I due si sentono fratello e sorella, nonostante non lo siano realmente, ed è proprio quando arrivano in Belgio, destinazione finale del loro peregrinare, che si trovano a fare i conti con una burocrazia che non può riconoscere legalmente quel legame che nei fatti esiste già. È a questo punto che la criminalità offre ai protagonisti una scorciatoia per raggiungere l’obiettivo che le leggi statali rendono estremamente complicato attuare. Tori e Lokita diventano le inquadrature del film, ne impongono le fughe in avanti e i momenti di stasi. Il movimento della narrazione comincia ad adattarsi a quello dei corpi che la macchina da presa segue incessantemente: quello piccolo e scattante di Pablo Schils, sempre alla ricerca di scappatoie e sentieri preclusi agli altri, e quello robusto e piazzato di Joely Mbundu, con i piedi ben piantati per terra e con le spalle abbastanza grandi da potersi far carico della responsabilità che sente di avere nei confronti del proprio compagno di viaggio.
I Dardenne colgono così l’individuo sullo schermo, rinunciando alla semplificazione fascista che parla dei migranti come di un’unica chose dangereuse da cui difendersi. In meno di dieci minuti rendono chiaro allo spettatore tutto quello che c’è da sapere sui personaggi, due giovani esuli senza famiglia persi in una grande città belga che cercano di sopravvivere e costruirsi un futuro dignitoso insieme. Formidabili narratori, lavorano instancabilmente affinché il racconto si svolga il più velocemente possibile e lo spettatore possa comprendere velocemente, negli interstizi della sceneggiatura, nelle ellissi, nei fuori campo, da solo, tutto quello che serve. Questa linearità così inesorabile serve però anche ad un’altra cosa, forse ancora più decisiva: impedisce a chi guarda di intellettualizzare troppo, non gli concede il tempo necessario per giudicare i personaggi o compatirli, tronca sul nascere qualsiasi catarsi drammaturgica. La macchina da presa non si allontana mai da Tori e Lokita e più che altrove la regia dei due cineasti, vibrante nella propria concisione, sembra riflettere l’ordinarietà dei desideri dei suoi giovani protagonisti, delle loro ambizioni di normalità impossibili da soddisfare. Se Rosetta, nel loro capolavoro del 1999, aveva paura di sparire, urlava per dire che esisteva, Lokita inizialmente non è consapevole di esistere, non ha nessuna voglia di urlare. Anzi, è schiacciata dalla paura di mettere a rischio, alzando la voce, quel poco che ha.
La ragazza imparerà a percepire la propria esistenza lottando per ottenere i documenti che le servono e combattendo per impedire che qualcuno la separi dall’unica persona che considera sua alleata. Così il film conduce i personaggi al di là della loro solitudine guerresca, verso l’incontro, l’aiuto reciproco, la vita a due. Il cinema dei Dardenne se ne infischia ancora una volta dei giudizi cinici a cui si espone, dell’odio esibito verso l’essere umano scambiato per il non plus ultra della lucidità di pensiero. Lo spettatore è costantemente in ritardo su ciò che vede, perché il film è già da un’altra parte rispetto a quello che mostra. Il differimento temporale tra immagine e racconto non è semplicemente una questione tecnica, ma sintetizza l’incapacità di una società di stare al passo con i fenomeni che accadono al suo interno, rende evidente la distanza che c’è tra gli avvenimenti e la loro accettazione.
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