Cannes 76 | The Zone of Interest, Glazer riflette sui segni filmici dell’Olocausto
L’orrore dell’Olocausto è un rumore di fondo, una nuvola di fumo in lontananza, nel nuovo film di Jonathan Glazer, cineasta glaciale che stavolta, adattando un romanzo di Martin Amis, mette in scena la serafica quotidianità di Rudolf Höss: il famigerato comandante di Auschwitz che, insieme alla moglie Hedwig, viveva con i figli e la servitù in una curatissima villetta con giardino ai margini del campo di concentramento, da cui li separava solo un anonimo muretto di cemento. Un piccolo microcosmo paradisiaco che per la famiglia Höss rappresenta il raggiungimento di una posizione di privilegio a lungo sognata, una casa lontana dalla città dove poter ricevere amici, conoscenti, e ostentare così il proprio benessere. The Zone of Interest di Jonathan Glazer è infatti un film paradossalmente dai colori idilliaci, in cui la vegetazione spesso occupa tutta l’inquadratura. Eppure quella che vediamo è una natura perseguitata dalla morte, piagata dal male. Questa zona di interesse (qualificazione che i nazisti diedero ai 40 chilometri attorno al campo di concentramento) va qui intesa nel senso tarkovskiano del termine (nel suo film Stalker).
Minimalista, lucido e clinico, la messa in scena di Glazer ribalta la sensazione di sorveglianza dall’altra parte del muro, mettendo a punto un dispositivo registico che ricorda quello dei reality televisivi: The Zone of Interest è stato girato simultaneamente su un massimo di 10 telecamere in stanze diverse, comandate a distanza, senza luci cinematografiche e consentendo agli attori di muoversi senza ostacoli nella villetta in cui si svolge la narrazione. L’elaborazione formale (lunghezze focali molto corte che non lasciano spazio alle sfocature, texture dell’immagine digitale di una precisione quasi surreale, come se il film vedesse più di quanto un occhio umano possa fare) è una sfinge di spaventosa nitidezza, di una bellezza che si percepisce immediatamente come violenta, rigidamente imposta. Ideologica, appunto.
Non è un caso che ogni documentario della propaganda nazista fosse ricco di paragoni con la bellezza e con l’arte, come lo stesso documento di presentazione del gas Zyklon B che sarebbe poi stato usato nelle camere a gas e che veniva indicato come un “potente ed efficace antiparassitario” che in pochissimo tempo avrebbe eliminato i tarli che stavano logorando gli eleganti oggetti dei tedeschi (l’esempio indicato nel filmato era quello di una scultura lignea). Una scelta di comunicazione dettata dalla ferma volontà di isolare e creare quel senso di estraniamento dalla persona fino a rimuoverle i suoi caratteri umani e oggettificarla definitivamente. Sottolineando la “bruttezza” dei soggetti, con termini come “disarmonia” o espressioni come “la vendetta della natura”, la propaganda nazista raccontava che la “devianza” dalla razza non poteva che produrre aberrazione e quindi “bruttezza”: non solo fisica, ma anche estetica, di decoro (essendo appunto il soggetto umano ridotto a suppellettile).
Glazer racconta tutto questo mettendo in scena l’Olocausto attraverso lo spazio e l’inquadratura cinematografica, tanto da ingannare inizialmente lo spettatore, che potrebbe anche credere di trovarsi davanti a una distopica ucronia, quella di un Reich vittorioso arrivato fino a oggi. The Zone of Interest sembra affetto da una follia metonimica, rifiutando ciò che è essenziale per soffermarsi sulla marginalità, favorendo l’innocuo sul mostruoso. Eppure, benché marginalizzati, i segni filmici dell’Olocausto si impongono lo stesso con forza sul senso generale di ogni immagine. Un immaginario cinematografico diventato anch’esso monolitico (autoritario?), che viene messo in crisi solo da alcune sporadiche sequenze in imaging termico: intermezzi strani e inquietanti che si svolgono mentre il gerarca nazista legge le storie della buonanotte ai suoi figli. C’è una ragazza, in queste immagini, dalle sembianze fiabesche, che sgattaiola fuori di notte per raccogliere mele e pere e lasciarle dove i partigiani ebrei possono trovarle. È il negativo di quella tragedia che sempre meno vediamo al cinema, essendo forse più facile e conveniente limitarsi alla rappresentazione del “male”, spingendo sullo shock e l’indignazione.
L’eruzione della musica di Mica Levi, tutt’uno con il sound design e i rumori del film, assorda lo spettatore sul finale come una sirena che suona da un altro mondo, un allarme ultraterreno che ci ricorda la teoria dei cicli della Storia. La forza del film di Glazer la si trova, infatti, nell’eco che giunge fino al nostro tempo. Cosa sta accadendo oggi, a pochi passi da noi, che abbiamo scelto di non vedere? E quando arriverà il momento in cui la morte, il dolore, l’orrore, ci impediranno di continuare a vivere come se nulla fosse?