The Shape of Water è il capolavoro di un cinema che pensavamo non esistesse più
Nel cinema di Guillermo Del Toro l’amore nelle forme più varie è sempre stato un elemento imprescinidbile sin dai suoi esordi con Cronos, che narrava proprio della tenera affezione di una bambina per suo nonno, che non doveva essere abbandonato neanche nella più tragica delle situazioni. Ma già in quella atipica opera prima era chiaro come il “romanticismo” fosse secondario al suo modo unico di narrare la storia del ‘900 per allegorie, alla volontà di trasporre in chiave “fantasy” i drammi della società messicana degli anni post NAFTA. Una società soffocata dalla piaga dilagante dell’Aids, rappresentata inscenando vampiri non più nobili come quello di Bram Stoker o esteti come quello di Anne Rice, ma veri e propri “junkies” nel solco della tradizione di William S. Burroughs, tossicodipendenti resi ciechi dallo sfrenato desiderio della prossima dose di sangue. Una idea precisa di cinema, meno sentimentale di quello burtoniano ma di impegno sociale quasi militante, che si è poi consolidata con le successive favole nere sul regime franchista. Se ne La spina del Diavolo i protagonisti erano fantasmi, invisibili proprio come le persone che per vivere nella Spagna di quel periodo dovevano negare il proprio corpo, la piccola Ofelia de Il labirinto del Fauno si poneva come esempio di opposizione alle sopraffazioni di una viscida autorità.
Per la prima volta nella filmografia di questo straordinario cineasta, in The Shape of Water la componente “melò” sovrasta lo sforzo di trasfigurazione storica, pur considerando la collocazione temporale delle vicende narrate negli ultimi giorni “del regno di un principe giusto”, associabile alla presidenza di John F. Kennedy. A muovere ogni cosa non c’è una presa di coscienza politica bensì un amore che non necessita di "trasformazioni" per compiersi, ma che trova il suo senso nella reciproca accettazione: quello tra la muta Elisa ed una creatura acquatica strappata al proprio luogo di origine, dove veniva venerata dagli indigeni come una divinità.
The Shape of Water, sulla colonna sonora di Alexandre Desplat che segue arpeggi come fossero onde, comincia e finisce immerso nelle profondità marine, il solo luogo dove questo amore sembra poter essere davvero libero di esistere. Ed è chiaro come le emozioni, anche quelle dei comprimari, questa volta siano più importanti di qualsiasi altra cosa: sarà la voglia di rivalsa a muovere Giles, le insoddisfazioni famigliari a far schierare Zelda, la passione per la scienza a comandare ogni mossa del dott. Hoffstetler.
Eppure anche solo il personaggio di Michael Shannon, che su di sé regge il peso "storico" del film in maniera impensabile per qualsiasi altro attore che non sia il paranoico protagonista di Bug, con la moglie casalinga ed il pallino delle Cadillac, che sfoglia libri sul positivismo e vive in un mondo dove non esistono dubbi o incertezze, è una rappresentazione fenomenale del borioso eccezionalismo americano secondo cui non esiste nazione in grado di competere con la grandezza degli Stati Uniti (e forse non è un caso che proprio un russo, quindi storicamente nemico di quel modo di vivere, sarà uno dei personaggi che mostrerà maggiore sensibilità nei confronti della creatura). Il regista messicano riesce con sintesi invidiabile a suggerire la violenza repressa di questo uomo così perfido sino a convincere chi guarda che la perversione non sta nella sessualità non canonica tra umani ed “inumani” ma in quella socialmente tollerata per la quale la donna è solo strumento di piacere (personale e mai condiviso). Così questo Straight White Male proverà persino del desiderio verso l’inserviente Elisa proprio per la sua condizione di disabilità, che le impedisce di ribellarsi verbalmente e la rende una preda facile della squallida imposizione maschile.
“When he looks at me he does not know how I am incomplete”
― Elisa Esposito (Sally Hawkins)
Per ovvie ragioni The Shape of Water è anche un lavoro che parla di esclusione ed emarginazione, di quelle fasce di popolazione che non erano viste dalle classi egemoni con sguardo diverso da quello riservato ai mostri: gay, neri, disabili e donne. Il Giles di Richard Jenkins, artista in malora che lavora nel più clandestino anonimato, sembra proprio il James Whale di Gods and Monsters, il cineasta inglese famoso per opere come Frankenstein e La moglie di Frankenstein, care allo stesso Del Toro, che nella sua vecchiaia decise di scomparire dalle scene perché stanco di nascondere la sua omosessualità. Il gusto per nulla post-moderno con il quale il regista messicano narra questa storia di schiavitù (magistrale la scena in cui la creatura trova riparo nella sala vuota di un cinema durante la proiezione di La storia di Ruth) deve far pensare al lavoro di cesellatura indispensabile per una sceneggiatura del genere, dove ogni scena che sembra inizialmente marginale torna poi a determinare le azioni (e le reazioni) dei diversi personaggi, rendendo così credibile una relazione che non avremmo mai pensato potesse essere rappresentata su schermo se non con gli espedienti del grottesco.
Così The Shape of Water è un cinema che proviene da un’epoca distante nel tempo, per il quale persino il mutismo della protagonista non sembra un segno per descrivere il personaggio ma una precisa decisione stilistica. Del Toro compie quindi una operazione non dissimile da quella di La La Land (anche qua c’è una splendida sequenza musicale): recuperare un genere considerato desueto, il musical come il monster movie anni ‘50, per parlare di emozioni e di amore in una maniera così teneramente ingenua da essere efficace ed ammissibile solo in quel tipo di storie.
Al cinema dal 14 febbraio 2018.