Venezia 77, The Disciple: ridondanze e variazioni di un film che segue la musica che lo attraversa
Il concetto centrale e predominante della musica indostana è il “rāga”, che è allo stesso tempo un concetto teorico (essendo un’immagine astratta, spesso rappresentata in poesia, dhydnamantram, o nell’arte, rdgamdhi) ed un concetto tecnico che definisce l’intonazione delle note, così come la loro durata e il loro ordine nella composizione. L’unità del tempo musicale è invece il “matra”, la cui ripetizione in modo ciclico e fisso costituisce la “tiila”. Partendo da questi concetti di teoria musicale, Chaitanya Tamhane costruisce The Disciple rispettando le ridondanze della musica che lo attraversa, riprendendo più volte la stessa inquadratura per poi discostarsene lentamente (le riprese laterali delle esibizioni, i movimenti di macchina che dal fondo della sala si avvicinano al palco), proprio come i musicisti del film partono da un “rāga” per poi compiere su di esso i necessari cambiamenti: aggiungendo, sottraendo e trasformando.
Il confine tra la musica classica propriamente detta e tutte le altre forme di musica indostana (semiclassica, leggera, folk, musica da film ecc.) è il “rāga” stesso. Se gli altri generi musicali lo fanno dipendere da altre qualità (principalmente parole), la musica classica trova il senso nella sua esplicitazione come fulcro e motore dell’esibizione musicale. Anche in questo caso The Disciple di Tamhane sembra fare proprio questo insegnamento, rendendo in ogni momento evidente una propria struttura scheletrica fatta di scene che si ripetono (i concerti, le esercitazioni, i giri in moto in slow-motion in una Mumbai che sembra uscire dal cinema di Refn) e attorno alle quali viene costruito il resto del film. Consapevole della scarsa conoscenza che il pubblico può avere del genere musicale in questione, Chaitanya Tamhane si appassiona nel raccontarglielo attraverso storie e chiacchiere da bar, scegliendo di non spiegare mai didascalicamente tutto ciò che potrebbe riguardare la tecnica del canto, la maniera in cui si modula la voce e si sceglie la melodia da eseguire, ma lasciando che il pubblico possa rimanere affascinato dall’enigma nascosto in quei suoni e nelle loro piccole variazioni.
Non essendo possibile applicare allo studio della musica indiana la terminologia musicale occidentale, è impossibile raccontare l’ascesa di un musicista di musica classica indiana attraverso i modelli cinematografici con i quali ci vengono raccontati gli esordi nel mondo della musica occidentale. Con una buona dose di ironia, quindi, Chaitanya Tamhane aderisce al classico modello del racconto americano di un giovane che cerca di diventare il migliore nel suo campo, proprio per rivelarne l’inefficacia e successivamente rivederne ritmi, metodi e finalità. Gli elementi indispensabili di quel modello cinematografico ci sono tutti: la necessità di curare il proprio corpo, la costanza nell’esercizio, la fatica e la privazione per raggiungere risultati accettabili, la determinazione nel non scendere mai a compromessi. Eppure tutto quello che nel modello cinematografico di riferimento viene descritto come necessario per raggiungere il proprio obiettivo, in The Disciple diviene un freno ed una limitazione, perché il processo di “appropriazione” musicale che viene raccontato, basato sulla trasmissione orale da guru a discepolo attraverso decenni di studio e preparazione, nega fin dal principio il tipo di racconto che viene fatto in Occidente di quelle storie, richiedendo invece una narrazione ampia e paziente.
La generazione cresciuta dopo l’Indipendenza ha avuto vaste opportunità di studiare musica. Lo stigma sociale è gradualmente scomparso e lo studio della musica classica è diventato un simbolo di educazione e raffinatezza. La musica classica indostana è oggi la musica della classe media. In seguito al declino dei principi e dopo il breve periodo di mecenatismo degli Zamindari, è stata la classe media indiana, sostanzialmente ignorante sulla tradizione musicale classica (quando invece principi e Zamindari ne erano grandi conoscitori, se non musicisti a loro volta), a sostenerne il mercato, spinti da un desiderio, sempre più forte dopo gli avvenimenti politici del diciannovesimo secolo, di riappropriazione del proprio patrimonio culturale. Parallelamente, il pubblico è diventato amorfo per vastità e per eterogeneità di composizione. Sono scomparsi i piccoli gruppi di ascolto e le specializzazioni regionali. Se il sistema chiuso dell’ereditarietà forniva sicurezza e prestigio, l’ascesa della media borghesia ha invertito questa situazione, rendendo il musicista un paria. Tamhane dedica quasi tutto il film agli anni della preparazione giovanile, quando Sharad, da adolescente idealista, si lascia guidare dal proprio guru, convinto che la venerazione nei suoi confronti sia non solo dovuta, ma motivata, e che la musica da lui studiata vada servita con devozione. È un dialogo con un giornalista straniero (quindi portatore di uno sguardo distaccato e sardonico sulla “mitologia” musicale indiana) a far comprendere a Sharad quanto le leggende cui aveva creduto vadano ridimensionate e che ciò che aveva considerato “sacro” fino a quel momento non possa sottrarsi alle logiche più venali e industriali. Che al di là del trascendente, ci sono anche i rimborsi spese.