Venezia 81 | Brady Corbet erige un’opera monumentale rimanendo fedele alla sua idea di cinema
Brady Corbet, ex attore statunitense, oggi regista eurocentrico, è da sempre ossessionato dalle violente relazioni di causa ed effetto tra vita privata e storia collettiva. Era così in The Childhood of a Leader, in cui l’apparentemente tranquilla e solitaria vita dorata di un bambino veniva ricondotta direttamente, senza soluzione di continuità, alla nascita del nazismo, e ancora nel successivo Vox Lux, che da una strage in una scuola faceva originare la strabiliante carriera musicale di una popstar, tra le poche sopravvissute di quella carneficina. Indicando Michael Haneke come propria stella polare - non a caso un regista che è stato in grado di utilizzare la storia privata di una famiglia per parlare dei lasciti del colonialismo francese - il cinema di Corbet riflette sulla maniera in cui le vicende individuali diventano l’innesco di processi collettivi, situazioni pubbliche, movimento politici e culturali di massa. Stavolta, con The Brutalist, questo processo viene “plastificato”: quei traumi che il regista statunitense - insieme alla sua compagna e co-sceneggiatrice Mona Fastvold - ha sempre indagato in maniera ellittica, adesso diventano visibili, plasmabili dal protagonista in tempo reale davanti agli occhi dello spettatore. Lo spunto, infatti, è quello offerto dal volume di Jean Louis Cohen “Architecture in Uniform”, incentrato proprio sulla relazione tra edifici e conseguenze della Seconda guerra mondiale. L’esperienza personale si rivela inseparabile dalla storia collettiva come gli artisti lo sono dal loro lavoro, come il cemento lo è da un edificio o – come ci racconta The Brutalist – come gli immigrati lo sono dalla società americana e come la forma di un edificio lo è dalla sua funzione.
La storia è quella di Laszlo Toth (Adrien Brody), architetto di fantasia, ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento ed emigrato negli Stati Uniti dopo la guerra, dove viene notato da un magnate (Guy Pearce) che gli commissiona la realizzazione di un grande edificio polifunzionale: un centro culturale (con una cappella) da erigere da zero, che lui realizzerà in stile brutalista. E non è un caso, dal momento che proprio il brutalismo, dopo gli orrori della guerra, rimise al centro la necessità di ricostruire concentrandosi sull’architettura civile: case, chiese, università. Spinti dalla voglia di riscatto, gli architetti che aderirono a quella corrente sono spesso citati per i loro edifici enormi, monumentali, ma meno per aver ridefinito il concetto di architettura partecipata, ritrovando un nuovo senso di appartenenza e di aggregazione. Senza svelare troppo, più il film avanza più è chiaro che la progettazione dell’edificio che Toth deve costruire ha a che vedere con il trauma dei campi di concentramento e finirà per prosciugare la vita del suo ideatore (un mix tra le figure e le biografie di Breuer, Kahn e Rudolph) in maniera non così dissimile dallo spettacolo teatrale di Synecdoche, New York. Grazie a questa intuizione, The Brutalist riesce a cogliere e a rappresentare ciò che rende l’architettura una forma d’arte, mettendo in scena come si possa parlare di sé, del mondo e delle relazioni con gli altri attraverso il design e la progettazione. Corbet trova qui la sublimazione di quella poetica di “collettivizzazione” dei traumi privati, arrivando ad erigere un vero e proprio monumento al dolore e al disagio del protagonista, brillantemente disegnato dalla scenografa Judy Becker (la stessa del film Carol).
Se entrambe le precedenti opere di Corbet utilizzavano la colonna sonora di Scott Walker (venuto a mancare nel 2019) come contrappunto alla sceneggiatura, per suggerire ciò che le immagini non potevano ancora esplicitare completamente o per anticipare ciò che queste avrebbero rivelato solo in seguito, non è quindi assolutamente casuale la scelta di affidare la composizione delle musiche di The Brutalist ad un artista come Daniel Blumberg, che all’ultima fase sperimentale di Walker deve tantissimo. La sua musica aggiunge suggestioni lì dove la sceneggiatura non riesce ad arrivare, conferendo alle immagini un significato che da sole non avrebbero, confondendosi con gli elementi di sound design e arrivando persino a teorizzare un “brutalismo musicale” che dialoga con l’edificio man mano che questo viene disegnato e costruito. Ed è forse questa simbiosi perfetta tra musica, regia e montaggio, utilizzati come materiali da impastare per dare solidità al film, che è la cosa più affascinante di un’opera che racconta, inevitabilmente, anche di sé stessa e del processo creativo da cui nasce.