Venezia 75, Sunset: il film di László Nemes percorso da una urgenza febbrile
C’è un senso di urgenza febbrile che percorre Sunset, il nuovo film di László Nemes, che narra dello sforzo di Irisz, una giovane ragazza ungherese, nel cercare in ogni modo di lavorare nella leggendaria cappelleria di famiglia, nelle mani di una nuova direzione dopo la scomparsa dei suoi. La regia di Nemes segue la ragazza senza mai muoversi dalle sue spalle e dal suo viso, che è sempre in primo piano anche per il ruolo che ricopre nella narrazione (Irisz riuscirà a farsi voler bene per via della somiglianza con sua madre). Una donna dal viso familiare (e famigliare) deve quindi cercare un uomo di cui nessuno vuol sapere nulla e del quale è preferibile non pronunciare neanche il nome. Sarà proprio dissimulando e camuffando il suo viso che Irisz riuscirà ad arrivare dove vuole.
La ragazza corre da un personaggio al successivo con una foga che ricorda quella di Saul e ogni dialogo del film comincia con una sua domanda. Delucidazioni che richiede a chiunque le si pari dinanzi per riuscire a sbrogliare quel groviglio di enigmi che riguardano la sua famiglia ed il loro negozio di cappelli, ma alle quali riceverà solo repliche evasive e mai davvero chiare. Il film di Nemes è quindi un crocevia di cammini che si incrociano, di ingressi che si chiudono per riaprirsi, di personaggi che si negano per poi riavvicinarsi. La regia pedina Irisz da vicino e nega a chi guarda la reale ampiezza degli spazi in cui lei cammina, per fermarsi solo quando è la ragazza a rimanere immobile, perché sono i personaggi secondari a muoversi verso di lei.
Con coraggio ed arroganza (quella feconda e non quella vana) László Nemes cerca di paragonare le vicende della sua seconda opera agli orrori del nazismo di cui parlava il suo esordio, riprendendo alcune scene da Il Figlio di Saul per ricondurle ad una nuova forma di oppressione che è quella delle corporazioni (i fuochi delle fiaccole di Kálmán richiameranno quelle delle fornaci del campo in cui era prigioniero Saul). Nemes realizza quindi un film che sembra svolgersi dalla prima scena a quella finale con la luce del sole che cala, anche se il cielo, che spesso non si riesce a vedere a causa della nebbia che lo copre, non è quasi mai in quella fase del giorno. È invece la messa in scena dal colore giallo ocra ad usare gli arredi, i cappelli, le vernici che dipingono i palazzi e persino il riflesso della luce sulla pelle liscia dei personaggi, per dare la sensazione di un perenne crepuscolo.
Sarà la violenza, quella che si subisce e quella che si compie, a cambiare il passo della narrazione: non ci sarà più nessuno da cercare ma qualcosa da scoprire. Il film frena la sua frenesia ed il pubblico, come Irisz, viene messo dinanzi a rivelazioni che non è in grado di comprendere. Perché Nemes non sceglie di narrare in maniera ambigua vicende lineari, ma di narrare in maniera lineare (ovvero seguendo “linee” dai percorsi più vari) vicende che non sono decifrabili nemmeno dalle persone che le vivono. Se ne Il Figlio di Saul il campo di azione era chiuso, adesso Nemes è libero di muovere la sua macchina da presa in luoghi via via sempre più grandi, che pullulano di persone che parlano lingue diverse e che in maniera diversa reagiscono agli assilli della ragazza. Non c'è più un luogo riconoscibile e riconducibile ad una vicenda che già si conosce, come quella del nazismo, ma uno spazio enorme che non è riferibile mai a nulla.
I personaggi dei film di László Nemes sembrano voler raggiungere i propri scopi sempre nella maniera meno comprensibile, quella a cui mai nessuno penserebbe perché così irresponsabile da non esser degna di considerazione. Come i prigionieri de Il figlio di Saul erano consapevoli di dover morire e non usavano la logica nei loro piani per la salvezza, così Irisz sul finale, quando dovrà decidere cosa fare e a chi credere, agirà nella maniera più pericolosa e meno prevedibile anche perché mai davvero consapevole di ciò che vorrebbe ricavare con le sue azioni. Nel suo film sugli orrori della Seconda Guerra Mondiale le azioni dei gerarchi erano folli come quelle delle persone che dalle loro grinfie volevano scappare, così nella sua nuova opera i ribelli non sono più lucidi e ragionevoli dei loro oppressori.