Soldado è un (bel) film che aderisce con efficacia al processo di “serializzazione”
Soldado, sequel del Sicario di Denis Villeneuve e secondo episodio di un franchise già in produzione, è per ovvie ragioni la razionalizzazione di un film complesso e denso, che in nessun modo prevedeva la realizzazione di un sequel se non per le logiche commerciali di serializzazione. Perciò se quello di Villeneuve era un poliziesco d’azione che desiderava arrivare al pubblico più ampio possibile pur rimanendo un’opera unica e personale, in grado di incanalare nel migliore dei modi i pregi del cinema del film-maker canadese (l’incedere ambiguo di Incendies e la descrizione di un mondo grigio ed in preda al caos come quello di Prisoners), Soldado deve per forza di cose preparare il campo per un sequel già in lavorazione. Per far ciò non può quindi essere un film ambiguo ed indecifrabile come il suo predecessore, ma un “film di passaggio” fra il suo prequel e ciò che deve ancora arrivare con i prossimi episodi. Lo sa bene Sollima (che viene da due grandi successi Tv come Romanzo Criminale e Gomorra) come lo sa bene Sheridan, la penna che scrisse Sicario e che ora invece obbedisce a delle logiche più grandi di lui, firmando un film più lineare e semplice.
Se Sicario, anche grazie alla regia di Villeneuve, sembrava un noir di Michael Mann - che si svolgeva però al di fuori dell’area urbana in cui quasi sempre si muove il suo cinema - Soldado sembra avere la franchezza di un film di Don Siegel e l’epica di un film di John Ford. Se in Sicario nessuno dei personaggi aveva ben chiara la propria posizione, in Soldado ogni comprimario ha un ruolo preciso e la narrazione prosegue veloce e senza pause. Non c’è più la figura femminile, quella che in nel film di Villeneuve svolgeva il ruolo di guida morale: Josh Brolin e Benicio Del Toro si muovono con ferocia e precisione, senza che nessuno dica loro come agire e cosa non fare (non lo fanno i personaggi, non lo fa il film).
C’è dell’ironia nel modo in cui Sheridan propone un inizio in grado di far innervosire qualsiasi dem americano (la “fake news” dei kamikaze dell’Isis che passano dal Messico per arrivare negli Usa) per poi disinnescarlo con un dialogo veloce, archiviando la feroce premessa del film e concentradosi su ciò che davvero vorrebbe narrare. Così come c’è dell’ironia anche nel modo in cui Sollima riprende alcune scene di violenza, che esplodono nel mezzo del film con il fragore di una bomba ma sono riprese con una freddezza quasi surreale (in un film che non vuole rendere le proprie vicende credibili o verosimili ma efficaci ed incisive). Così Sollima riesce a riprendere ogni cosa con il rigore del cinema americano migliore, rigido e senza orpelli, ma dando comunque l’idea di essere sempre immersi in una grossa allucinazione per cui alla fine anche i personaggi più crudeli, freddi sicari consapevoli delle loro azioni, non sembreranno poi così lucidi ed infallibili.
Sollima quindi riesce ad usare il genere al meglio (azzeccando le cose indispensabili: i personaggi, le scene cardine, i luoghi) e ad inserirsi in un franchise che origina da un lavoro di per sé non replicabile: inserisce una narrazione che non ha nulla né di originale né di clamoroso in una dimensione nuova e la padroneggia con una sicurezza encomiabile, ordinando il caos con i codici ferrei del cinema di genere. Anche Sheridan, capace di passare dalle narrazioni più dispersive e ricche di digressioni a quelle più disadorne ed essenziali, prosegue con Soldado il suo personale discorso sui luoghi, descrivendo il confine come una zona in cui valgono regole specifiche ed applicabili solo lì, che bisogna conoscere per sopravvivere.