Sauvages | la stop-motion per tornare agli albori del cinema

Per il suo secondo lungometraggio, Claude Barras si fa aiutare dalla co-sceneggiatrice Catherine Paille, dal fumettista Morgan Navarro e dalla scrittrice Nancy Huston, per un film “ecologista” che esprime un’urgenza di ribellione e riscatto, allestendo il suo teatro di plastilina nell’immensa foresta tropicale del Borneo. O meglio, ai suoi margini, nel punto d’incontro tra l’iperdensità di una giungla brulicante di biodiversità e l’ululato meccanico delle scavatrici pronte a inghiottirla. Il film attraversa questa mutevole linea del fronte di una guerra tra macchine (e l’avidità di chi le aziona) e gli abitanti legittimi di quelle terre, seguendo la fuga di una piccola scolaretta, Kéria, che si perde nella giungla dietro casa sua quando un cucciolo di scimmia finisce improvvisamente tra le sue braccia. Il primo contatto con questo mondo così distante dal nostro è splendido. Attraverso l’intensità dei suoi colori e la dimensione quasi magica della pittura che rende viva una vegetazione mai così densa e rumorosa, che ospita molto di più di quel che osa mostrare a noi, la “patanimazione” di Barras sembra quasi cugina dell’arte naïf di Henri Rousseau. Come se ne avesse conservato il potere plastico e onirico rifuggendo invece dal suo esotismo. Perché è con cautela che il regista si avvicina al popolo Penan, che accoglie la protagonista smarrita. Ansioso di preservare la stranezza di questo stile di vita che Kéria scopre, Barras non traduce né sottotitola i dialoghi all’interno della tribù e adotta uno sguardo rispettoso, che non riduce i nativi a macchiette ma custodisce gelosamente il mistero di quella cultura e di quel modo di vivere.

Al netto di una storia fin troppo trasparente nelle sue intenzioni, nel modo in cui ribalta l’accusa di barbarie rivolta ai nativi contro la multinazionale, descritta anche visivamente come una forza paramilitare e colonialista (accusa ovviamente coraggiosa e legittima, ma talmente frontale da sembrare rivolta principalmente a un pubblico scolastico), è invece dal punto di vista estetico che Sauvages risulta davvero meritevole di attenzione, nel modo in cui utilizza la stop-motion (tra le tecniche di animazione più antiche) per mettere in scena una storia che racconta – tra le altre cose – la ricerca delle origini. La storia stessa dello stop motion, infatti, ci riporta agli albori di quella cinematografica: nel primissimo Novecento con Georges Méliès e Le voyage dans la lune (1902), dove troviamo un primordiale esempio di questa tecnica, e poi sei anni dopo, nel 1908, con Fantasmagorie di Emil Cohl, riconosciuto come il primo film interamente in stop motion. E come dimenticare il contributo unico di un genio come Ladislas Starevich: pioniere russo del genere, che ha iniziato la propria carriera come collezionista di insetti e che agli insetti ha dedicato la gran parte della sua opera. Il suo film del 1912, La vendetta del cineoperatore, è stato realizzanto usando animali veri essiccati – scarafaggi, cavallette e libellule – e raccontava in maniera sorprendente la storia di un’infedeltà coniugale, trattando in modo comico argomenti sensibili come l’adulterio e – molto in anticipo sui tempi – quello che oggi chiameremmo revenge porn. Una lezione, quella su come raccontare argomenti anche delicatissimi attraverso il cinema d’animazione, che Barras aveva già fatto propria con La mia vita da zucchina, toccando un argomento tabù come quello degli abusi sui minori.

È innegabile, quindi, il legame strettissimo che il cinema d’animazione intrattiene con il pre-cinema, ovvero con tutti quegli esperimenti legati alla proiezione di immagini e al movimento illusorio databili dall’antichità fino alla prima proiezione pubblica di cinematografo. Si pensi, ad esempio, al prassinoscopio, dispositivo ottico che permetteva la proiezione di immagini e disegni animati, nato come evoluzione dello zootropio e inventato in Francia nel 1876 da Charles-Émile Reynaud. Proprio dal prassinoscopio derivarono poi i vari sistemi di “dischi animati” diffusi in vari paesi tra i decenni degli anni cinquanta e sessanta del XX secolo. Sistemi pressoché sovrapponibili ed equivalenti, destinati prevalentemente all’infanzia, che univano due strumenti, giradischi e prassinoscopio, offrendo uno spettacolo di disegni in movimento unito all’ascolto di musiche per bambini. Il termine “prassinoscopio” può essere tradotto approssimativamente come “strumento per osservare le azioni”, dalla radice delle due parole in greco antico che lo compongono, ovvero: πρᾶξις (“azione”) e σκοπέω (“osservare”).

E cos’è il cinema d’animazione se non movimento, azione, la possibilità di attivare oggetti inizialmente inanimati, proprio come avviene nel caso della stop-motion, in cui la materia inerte prende vita? Claude Barras, molto elegantemente, sceglie ostinatamente questa tecnica per tornare agli inizi del mezzo cinematografico, raccontando la storia di un popolo anch’esso rimasto fedele alle sue origini, che si oppone al capitalismo e all’industrializzazione selvaggia. In questo senso, anche il film può essere letto come un atto di resistenza nei confronti dell’eccesso di digitalizzazione (oggi anche di intelligenza artificiale) nel cinema d’animazione contemporaneo.