Red Zone - 22 Miglia di fuoco, la recensione: “Iko is not your amigo”

Il cinema di Berg è sempre una faccenda di scale e proporzioni. Se operazioni marginali sono rese su schermo come fossero enormi, simili a delle vere e proprie guerre che si svolgono in arene che sembrano sempre più grandi di quello che sono, quelle davvero complesse vengono riprese con una padronanza dei mezzi che fa sembrare esili anche le narrazioni più grosse. Come già in Lone Survivor ogni azione si inseriva in uno scenario più ampio della specifica missione di cui si parlava, così anche in Red Zone - 22 Miglia di fuoco la missione di James Silva (ovvero riuscire a condurre in salvo una persona che dice di possedere delle informazioni preziosissime per la sicurezza nazionale) è solo una piccola mossa sullo scacchiere di un “grande gioco” (come lo chiamerà proprio Wahlberg verso la fine del film) che non può fermarsi. Ma siccome il nuovo lavoro di Berg è anche l’avvio di un possibile franchise, quella che narra è una vicenda di “passaggio” su due livelli diversi: quello della narrazione (un incarico che non si esaurisce ma che deve proseguire) e quello del cinema (essendo il film il primo episodio di una serie).

Red Zone sembra quindi avere una consapevolezza di sé come film d’azione che sceglie di rivelare dialogando con i desideri e le previsioni del pubblico. I tic dei due personaggi principali, quello di Mark Wahlberg e quello di Iko Uwais, preannunciano sempre l’inizio di una sequenza d’azione e avvisano chi guarda: quando Noor comincia a muovere le sue mani in maniera nervosa o quando Silva inizia a giocare con il suo bracciale di gomma, sappiamo che qualcosa dovrà avvenire di lì a poco. È un cinema che quindi prende coscienza dei meccanismi che muovono il genere, usandoli per i propri scopi e svelandoli per renderli individuabili. Non solo John Malkovich rimprovererà Wahlberg per i suoi monologhi eccessivi e per gli aforismi banali, ma una informazione di grande rilevanza sul destino di uno dei personaggi principali non sarà svelata perché Silva deciderà di non rivelarla durante il suo interrogatorio (così come Berg nega quella informazione al proprio pubblico, decidendo cosa far vedere e cosa invece nascondere).

In una operazione di dissezione del genere che mira ad isolarne i singoli pezzi che lo compongono, i corpi dei personaggi divengono mezzo di indagine filologica. Se Wahlberg ha il fisico rigido e massiccio di un everyday man che si fa eroe solo quando necessario, anche se il suo ruolo nella narrazione non è più quello di sempre, il corpo di Iko Uwais, come già nei due The Raid, sembra essere infallibile ed inafferrabile, lo vediamo in volo come a sfidare le forze della fisica che invece lo vorrebbero ancorare al suolo. Il modo in cui i loro corpi si muovono sullo schermo segna la differenza fra due modi diversi di fare cinema e di concepire l’azione, che non si uniscono mai ma rimangono inconciliabili (ogni sequenza che riguarda i due è ripresa in maniera diversa, con lo slo-mo ad amplificare le mosse corpo a corpo di Uwais e la scansione rapida e febbrile che accompagna gli spari di Wahlberg). Eppure Berg non sembra essere a suo agio nel dirigere le scene con Iko Uwais e finisce per smorzarne la forza.

Red Zone è quindi un film sulle dinamiche del cinema d’azione ma è anche un film privo di ciò che negli anni ha reso il cinema di Berg così riconoscibile. James Silva non è più un uomo ordinario, le cui azioni eroiche non servono a celebrare il singolo individuo ma la classe sociale in cui si riconosce, bensì un personaggio dal background inusuale, che lo rende per forza di cose unico e non più espressione di un gruppo. Red Zone non è Solo Due Ore: non vuole essere un film essenziale di serie B, ma narrare una vicenda più ampia, che coinvolge Paesi e milizie.

Nella scena che apre il film, Wahlberg osserva l’azione da fuori, nel ruolo di un cecchino che deve sorvegliare senza l’obbligo di agire. Silva non è più il classico eroe berghiano, sempre deciso a collaborare anche quando sa di non esserne capace o di rischiare grosso nel farlo. La dimensione seriale in cui si inserisce Red Zone spinge Berg a cambiare il suo cinema alla base. I personaggi non possono più essere eroi occasionali, ma devono nascondere qualcosa da scoprire poi negli episodi successivi ed avere alle spalle delle vicende personali da approfondire nel corso dei film che (forse) verranno.