“Principe Libero” convince, ma al De André artista preferisce l’uomo
Cimentarsi nella trasfigurazione cinematografica di quello che è stato senza alcun dubbio uno dei cantautori più complessi, controversi ed impenetrabili della musica italiana, non era una impresa semplice. A maggior ragione se il mezzo scelto per narrare la sua storia non è quello del cinema ma quello del piccolo schermo, i dubbi, in un Paese che nonostante i giganteschi passi avanti non è ancora in grado di garantire una qualità sempre soddisfacente (come ormai avviene a livello internazionale, dove il livello generale è sempre più alto), erano giustificabili e comprensibili. Per fortuna Principe Libero sceglie di fuggire dalle agiografie tipiche della nostra televisione per omaggiare Fabrizio De André in maniera sincera e mai reverenziale, pur levigando le spigolature di una personalità difficile ed addolcendo le sue relazioni personali più aspre.
Ad elevarlo sulla mediocrità diffusa di certi serial/lungometraggi italiani per il piccolo schermo che ancora oggi riempiono i nostri palinsesti, Principe Libero può vantare un gusto non scontato nella regia e nella fotografia, nonché un cast che nella sua interezza (o quasi) è stato capace di interpretare in maniera egregia personaggi difficili senza cadere nella pallida imitazione. Così come stupisce una cura nelle scenografie e nella ricostruzione storica che mai avremmo preteso, per pregiudizi forse sbagliati, in una produzione nostrana (e che invece è lo standard di quelle estere). Per questo la vita di De André divisa tra case borghesi e caruggi è restituita in maniera credibile anche grazie al lavoro sugli elementi di scena. Persino il vestiario è sempre evocativo ed accurato, a dimostrazione di un lavoro scrupoloso dei diversi compartimenti. Sembra di vedere il Godard del ’68 in un primo piano di Marinelli con gli occhiali da sole e con La canzone del Maggio come colonna sonora, così come pasoliniano è il giovane De André in pantaloni aderenti e camicia, sempre alla ricerca di quelle che lui chiama le “persone vere”, la cui vitale purezza ristora e riconcilia col mondo (proprio alla tragica morte di Pasolini il cantautore dedicò questi versi: “È una storia di periferia, è una storia da una botta e via, è una storia sconclusionata, è una storia sbagliata”).
“Io sono un principe libero e ho altrettanta autorità di fare guerra al mondo intero quanto colui che ha cento navi in mare”
― Fabrizio De André
La narrazione di Principe Libero scorre via senza guizzi rilevanti, proponendo la vita del cantautore genovese nella maniera più classica possibile, mostrando gli eventi nel loro cronologico svolgimento ed impedendo che il lirismo tipico del cinema (o di certe serie tv) prenda il sopravvento sulla struttura ormai rodata dei biopic più didascalici. Così Principe Libero sembra concentrarsi molto più sul De André uomo, con le sue relazioni famigliari ed amorose, tralasciando forse in maniera eccessiva le idiosincrasie e le piccole ossessioni del De André artista, che invece emergono solo sporadicamente (come nella splendida scena in cui, guardando in televisione l’interpretazione di Mina della sua La canzone di Marinella, se la prende con se stesso per la rima stella-bella). Manca quindi quasi completamente quella sua maniacale ricerca delle parole giuste, che non dovevano essere banali ed allo stesso tempo mai troppo auliche o complesse, facilmente comprensibili ma sempre spiazzanti per la loro collocazione nel testo.
Quello che lascia forse più perplessi di Principe Libero è invece l’uso delle sequenze musicali, ovvero quelle eseguite dallo stesso Marinelli e dai musicisti, che non sembrano mai avere davvero un peso specifico nella economia della narrazione e che, al di là della coerenza cronologica della storia, sono posizionate arbitrariamente e senza la necessaria consapevolezza. Sono scene fondamentali in un lavoro del genere ma che solo nella posizione giusta, a marcare un passaggio nella biografia di De André o uno stato d’animo del protagonista in una precisa situazione, possono caricarsi di un reale valore per chi guarda. Per uno strano paradosso è invece più efficace la composizione delle canzoni originali di Faber ad accompagnare le immagini di Principe Libero, che seguono un montaggio per assonanze (e dissonanze) che nel cinema è generalmente riservato alle immagini e che qui invece viene applicato alla musica. Così spesso una canzone si ferma per dare spazio ad una successiva (che può collegarsi alla prima o avere valore antitetico) senza soluzione di continuità, come avviene nella sequenza in cui il cantautore genovese apprende del suicidio di Tenco, dove a Ciao amore, ciao si sostituisce la Preghiera in Gennaio composta da Fabrizio per il suo amico scomparso. Le canzoni si legano alle immagini per suggestioni tematiche e non per fedeltà cronologica al periodo narrato, così Disamistade fa da sfondo al periodo della cattività sarda e Volta la carta agli anni della gioventù.