Perché difendere Franco Maresco (e il suo film)
“La satira, quella vera, non è ricerca di battute per ridere, ma uno strumento per cogliere la realtà fuori dai luoghi comuni. Così la satira diventa informazione, la mafia vista nei suoi aspetti grotteschi, i mafiosi rappresentati in tutta la loro rozzezza e crudeltà”. Con queste parole Vincino, il disegnatore palermitano de Il Male, descriveva il lavoro di Ciprì e Maresco con Cinico TV. Era il 1996 e Franco Maresco, ospite a Saint Vincent della sesta edizione del “Festival della Satira e dell’Umorismo”, denunciava l’indifferenza nella quale si erano ritirati i palermitani, dopo le indignazioni e le speranze che seguirono la strage di Capaci, facendo emergere il “Tomasi di Lampedusa che alberga in ciascuno di noi”. Sono passati ventiquattro anni, ma ad ascoltarlo oggi, Franco Maresco, che annuncia il debutto del suo film La mafia non è più quella di una volta sulla piattaforma online MioCinema, ci si accorge che poco o nulla è cambiato nel suo giudizio sull’atteggiamento comune: “Oggi non si muore di piombo, ma di indifferenza e di apatia”. Il film, Premio Speciale della Giuria a Venezia, è stato disconosciuto da Rai Cinema in un atto che è “tecnicamente riconducibile alla censura”, come sottolinea Antonio Ingroia, avvocato del regista, ma che pare mosso più da un eccesso di pavidità che dalla volontà di esercitare un controllo morale o ideologico sull’opera.
Rai Cinema, in una ricostruzione dei fatti che cozza con quella raccontata da Maresco in conferenza stampa, sostiene che il film sia stato inviato autonomamente dal regista al festival di Venezia e che quando l’azienda ha potuto finalmente visionare la sua versione definitiva, ha rilevato che questa era “rispondente solo in parte al progetto originale” e che conteneva “elementi non condivisi che seminavano dubbi e illazioni potenzialmente offensivi nei confronti della figura del Presidente della Repubblica, alludendo perfino ad un silenzio omertoso del Presidente”. Come concorderà chiunque abbia avuto modo di vedere il film, considerare lesivo il lavoro di Maresco nei confronti del Capo dello Stato presuppone una scarsa considerazione dell’intelligenza del pubblico, incapace, secondo chi muove delle accuse di questo tipo, di pesare le parole pronunciate dall’impresario Ciccio Mira (che definisce il Presidente un “palermitano vero”, uno che sa quando tenere la bocca chiusa) e di giudicare autonomamente la credibilità del racconto che viene fatto dal protagonista del film, il quale millanta conoscenze con la famiglia Mattarella al solo fine di richiedere la grazia al Presidente per un suo congiunto in carcere. Ma il film di Maresco ha in sé gli anticorpi per sfuggire alla fraintendibilità e alle ambiguità dei suoi personaggi. Letizia Battaglia salva il film dal suo stesso regista, talmente innamorato del suo mondo grottesco da rischiare di caderne vittima. È lei a fare da contraddittorio a Maresco, a metterlo in guardia dal suo irrecuperabile pessimismo (“Maresco, a me non piacciono queste battute”, “Hai rotto il cazzo pure tu”). È la “terza voce” di un cinema che invece si è sempre basato sul dualismo vittima-carnefice (attore-regista). E proprio Letizia Battaglia, sulla querelle riguardante le scene in cui si tira in ballo Mattarella, aveva già sentenziato: “Del Presidente si parla attraverso il racconto di uno dei protagonisti, Ciccio Mira, che è quello che è”.
E ovviamente non esiste alcun intento di “vilipendio” nel chiedere conto al Presidente del silenzio dopo la sentenza di primo grado nel processo Trattativa, quella che ha di fatto riscritto il finale della Prima Repubblica e l’inizio della Seconda, condannando per lo stesso reato (violenza o minaccia a corpo politico dello Stato) uomini di mafia come Leoluca Bagarella e Antonino Cinà (gli unici picciotti superstiti fra gli imputati) e uomini dello Stato come Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno del Ros e Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia. A quell’interrogativo, sollevato da Maresco nel film, il Quirinale aveva risposto, dopo la presentazione a Venezia, con una comunicazione ufficiale in cui si diceva: “Tra le cose che il Presidente della Repubblica non può fare vi è, ovviamente, quella di commentare i processi e le sentenze della Magistratura”. La questione poteva chiudersi lì. E invece nulla sembra smuovere Rai Cinema dalla decisione di impedire l’utilizzo del proprio logo aziendale, venendo meno, sostiene Maresco, a precisi obblighi contrattuali, compresi i passaggi televisivi dell’opera. Una scelta che di fatto penalizza la circolazione di un film che meriterebbe diverso trattamento, che andrebbe sostenuto proprio con lo scopo di disturbare l’autocompiacimento in cui si è rifugiata un’antimafia sempre più aderente alla “società dello spettacolo” di Debord, in cui il valore d’uso è tendenzialmente azzerato a vantaggio del valore di scambio. Maresco, ponendo una semplice domanda, ricorda a tutti che ci sono dei fatti messi nero su bianco. Fatti nonostante i quali lo stesso Mattarella accettò di ricevere al Quirinale l’ex premier Silvio Berlusconi durante le consultazioni del 2018. Si è passati dalla delegittimazione alla rimozione. Per vent’anni si è letto sui giornali della “presunta trattativa”, della “cosiddetta trattativa”, della “supposta trattativa”. E ancora oggi si crede possibile fare passare come teoremi dei fatti acclarati dal 1996, che nessuna sentenza futura potrà smentire. Si crede possibile non considerare che nel 1992 alcuni di quelli che giuravano guerra dura alla Mafia, sottobanco trattavano coi mafiosi, rafforzando la criminalità organizzata e prolungando la stagione delle stragi.
Proseguendo l’indagine rosselliniana di continua interrogazione delle immagini, La mafia non è più quella di una volta opera la “smitizzazione” definitiva di Cosa Nostra, cominciata paradossalmente proprio in televisione con la messa in onda delle dirette dei processi, che presentavano per la prima volta nella loro reale piccineria quei “capi” spesso descritti come super manager infallibili. Adesso la mafia, scomparsa dai dibattiti e dai quotidiani, è immersa nel fluido viscoso delle “fiction” che tutto comprende ed ingloba. Un super-blob di produzioni cinematografiche e televisive in cui tutte le immagini sono poste sullo stesso livello, come nel programma di enricoghezzi, in cui le immagini dei rottami dell’auto su cui viaggiava Falcone compongono lo stesso aerosol per la retina assieme ai collegamenti di Emilio Fede da Baghdad, all’urlo araldico di Sandra Milo, al culo di Valeria Marini. Se nel ’97, prima della controversia (e della vicenda legale) attorno a Totò che visse due volte, Ciprì e Maresco dicevano che “la gente di Palermo non era più quella del precedente film, che le facce si stavano trasformando ed erano pronte per le trasmissioni di Mediaset”, adesso queste facce sono pronte per altri e nuovi prodotti audiovisivi, a cui il cinema di Maresco si contrappone. Nel precedente Belluscone, racconta il regista, i giovani sottoproletari siciliani dicevano di intendere la parola “carabiniere” come un insulto. Oggi gli rispondono che se “non possono fare i killer, anche il carabiniere va bene”. Nel super-blob, ancora, convivono insieme mafia e antimafia, i concerti allo Zen dei cantanti neomelodici e le manifestazioni “ufficiali” per la legalità.
È doveroso, quindi, battersi affinché La mafia non è più quella di una volta non rimanga vittima della stessa “incuria” e dello stesso menefreghismo che solo qualche settimana fa ha causato il definitivo trasferimento dell’Archivio Scaldati alla Fondazione Cini di Venezia, dopo sette anni spesi nella vana attesa di trovare una collocazione in quella Palermo che era la dimora più logica per quell’Archivio. Se proprio non ci si vuole unire “contro la censura” nei confronti di Maresco (d’altronde lui stesso diceva “basta coi martiri della satira”), allora ci si unisca nella difesa del patrimonio cinematografico di cui un film come il suo è testimonianza. Nella difesa del principio che non è possibile una “decodifica delle immagini” fatta a priori, prima dello spettatore in sala. Se è vero, come raccontò il regista in una intervista del 2014, che Silverio Piro, il pubblico ministero che era stato il principale accusatore di Totò che visse due volte, dieci anni dopo cambiò idea, arrivando a definirlo “un capolavoro”, allora la speranza è che anche Paolo Del Brocco, magari in tempi più brevi, si accorga del valore del film che non vuole riconoscere. Che oggi, come allora, l’unica cosa ad essere vilipesa è il cinema.