Ore 15:17, Clint Eastwood inscena la realtà senza rinunciare al cinema
Pur nella sua radicale differenza con qualsiasi altra cosa sia venuta prima nella filmografia di Clint Eastwood, questo nuovo Ore 15:17 - Attacco al treno non è che la naturale estensione di un discorso cominciato con American Sniper e proseguito con Sully. Una ipotetica “trilogia degli eroi” che vuole indagare gli sprazzi di grandezza nascosti nelle persone comuni, non miti irraggiungibili ma uomini come tanti resi speciali dal coraggio di agire quando necessario. Eroi inquadrati nella loro sommessa quotidianità, grigia e davvero poco sensazionale, che sul grande schermo hanno assunto prima le sembianze di Bradley Cooper e poi di Tom Hanks, interpreti selezionati proprio per la straordinaria abilità di annullare la loro ingombrante aura da divi. Eastwood sceglie ora di mischiare le carte e di affidare il ruolo dei tre giovani protagonisti di The 15:17 to Paris ai veri ragazzi che il 21 agosto 2015 sventarono una strage sul treno Amsterdam - Parigi su cui erano a bordo.
Alla soglia degli 88 anni, il regista di Gran Torino decide così di usare uno stile naïf da piccola opera indipendente per narrare la propria storia, rinunciando alla magniloquenza e lavorando di macchina a mano per inscenare quella che in alcuni momenti sembra la trama di un “coming of age” alla Linklater, che svela il giovanile entusiasmo dei propri personaggi nei loro dialoghi più frivoli e nelle loro interazioni più trascurabili. Eastwood spoglia quelli che saranno gli eroi del suo racconto di qualsivoglia forma di autorevolezza o saggezza, arrivando quasi a prendersene gioco, descrivendo in maniera caricaturale le loro ingenue certezze (in una scena magistrale sarà una guida turistica berlinese a far vacillare la loro convinzione nell’eccezionalismo americano) ed i loro comportamenti più patetici (dai selfie con lo stick al provincialismo di chi visita il mondo per la prima volta sentendosene padrone). Sono ragazzi confusi e dalle evidenti contraddizioni, che sognano di arruolarsi nonostante una naturale tendenza a disobbedire agli ordini, affascinati da una virile idea di cameratismo ma disposti a comportarsi come schegge impazzite.
Nonostante Ore 15:17 decida di narrare le proprie vicende con uno stile visivo minimale, facendo un uso invisibile degli elementi distintivi del cinema sui quali si reggevano invece i precedenti lavori di Eastwood (il montaggio in American Sniper, la composizione delle immagini in Sully), non si ha mai la sensazione di vedere qualcosa che non sia riconducibile in ogni istante alle forme classiche della cinematografia (ben diverse da quelle del documentario o del reportage giornalistico). Il passato dei protagonisti è proposto in maniera poco verosimile e chiaramente artificiosa, indugiando su profetici corsi di primo soccorso ed ispiratrici lezioni di storia che mai si sono svolti nella realtà nei termini proposti dalla sceneggiatura, ma che servono al regista per scopi puramente narrativi. È proprio sfruttando quelle che sono le regole basilari del cinema (introdurre un elemento in sceneggiatura per recuperarlo solo nel finale, dandogli un senso inedito) che Eastwood mostra ogni istante della vita dei suoi “predestinati” come se questo fosse propedeutico a ciò che dovranno poi fare sul treno. Quella che ci viene proposta è una storia che appare reale per via delle persone che la interpretano, ma che allo stesso tempo è finta come ogni storia destinata al cinema. Si tratta di una idea audace e dalle enormi ambizioni, che in The 15:17 to Paris non raggiunge gli scopi desiderati proprio a causa delle debolezze di uno script blando, affossato da dialoghi poco ispirati quando non involontariamente imbarazzanti.
Questa strana opera sembra mancare di quella raffinatezza e complessità su cui il cinema di Eastwood si è sempre basato. Un didascalismo esasperato appesantisce una trama che lo stesso regista svuota invece della propria componente propagandistica. Se persino l’atto terroristico non è enfatizzato nelle sue connotazioni geo-politiche (al posto di Ayoub El Khazzani ci poteva essere un folle qualsiasi ed il significato del film non sarebbe cambiato di una virgola), è chiaro che stavolta non è tanto la forza ideologica a muovere la narrazione quanto il tema della fede nel proprio destino, quella che spinge i personaggi a sentirsi strumenti di un disegno superiore anche quando le cose nella loro vita non vanno come vorrebbero. Però questa fede non è più una questione intima come in Hereafter o in Million Dollar Baby, qualcosa che i personaggi portano dentro con silenziosa consapevolezza, ma un sentimento da urlare e ribadire ad ogni occasione.
“Non pensi mai che la vita ti stia spingendo verso uno scopo più elevato ?”
― Spencer Stone
Clint Eastwood confina il momento eroico in pochissimi minuti, mostrandolo senza clamore e senza i filtri tipici del cinema. Perché dietro agli eroi della sua filmografia sembra non esserci mai qualcosa di davvero speciale (o se qualcosa c’è non ci è dato vederla). Così gli attimi in cui l’eroismo si compie non sono epici né stra-ordinari, ma governati da logiche insindacabili in cui interviene il primordiale istinto umano di sopravvivenza che ci spinge a reagire, quando non è invece la stessa provvidenza (il caso, per gli agnostici) a manifestarsi in un fucile che si inceppa proprio prima di sparare.
In The 15:17 to Paris realtà e finzione cinematografica si mescolano sino a non essere più distinguibili nella scena conclusiva, che mostra la premiazione dei tre ragazzi alla presenza del presidente francese Hollande, alternando le immagini finte del film a quelle vere trasmesse in televisione. Solo in quel momento si capisce il senso di una operazione che è molto più profonda e stratificata di quanto non lo sia la sua sceneggiatura.