Ocean’s 8 non ribalta la prospettiva maschile della serie ma si limita all’omaggio
Il senso di una operazione come quella del “gender swap” e del successivo rilancio del franchise Ocean’s doveva essere uno solo: capovolgere il modo di vedere (e di agire) dei personaggi maschili della serie per svecchiarne la narrazione, che per forza di cose deve ora passare dallo sguardo femminile del nuovo gruppo di ladre. Quello di Gary Ross è invece un film che riesce benissimo nell’omaggiare la serie di Soderbergh, da cui riprende persino alcuni dei segni visivi che l’hanno resa famosa, senza però avere la forza di usare quello che era il fulcro di ogni episodio, ovvero il carisma e lo charme dei personaggi e dei divi che li incarnano, per fare qualcosa di diverso. Anche le differenze con il film originale del 1960, Colpo Grosso, sono quelle che già c’erano nel remake di Soderbergh.
Perciò anche in Ocean’s 8 la cosa che sembra funzionare meglio è l’alchimia fra le donne del gruppo, ovvero i personaggi del film e le dive che indossano i panni di quei personaggi (perché proprio come nella saga di Soderbergh il piano glamour, quello che riguarda le “celebs” che compaiono sullo schermo, non è scindibile da quello della narrazione). Il film di Ross quindi vive, proprio come quello di Soderbergh, degli scherzi che i personaggi si giocano a vicenda e del loro ossessivo ammiccare al pubblico per ogni colpo messo a segno. Sul piano della realizzazione ogni cosa funziona come dovrebbe (se non per qualche passaggio implausibile) e Ross è bravo nel ricalcare quel modo di narrare il “grande colpo” che nulla ha a che vedere con la chirurgica precisione di quei film anni ’60 (in cui il rigore dei ladri trovava la sua resa formale nel rigore della messa in scena) ma si serve invece di una regia che vuole apparire e che si vuole far vedere. Da Ocean’s 11 del 2001 numerosi “heist movies” hanno deciso di narrare le proprie rapine come se queste fossero esibizioni di magia (si pensi ad esempio a Now You See Me) e non invece complessi piani criminali.
Se Paul Feig con il remake femminile di Ghostbusters cambiava il genere del film originale (che da film d’azione diveniva commedia pura) ed usava le proprie attrici (tutte provenienti dall’ambiente della stand-up comedy, che per decenni ha accolto solo comici maschi) per parlare di differenze di genere in campo lavorativo, il film di Ross rinuncia anche a questo gusto metacinematografico e vive nell’ombra degli uomini forti della saga di cui fa parte (che vengono nominati spesso e compaiono in diversi modi). E ancora se film come quelli della Bigelow inseriscono i propri personaggi femminili in ruoli (o posizioni professionali) che spesso associamo agli uomini per mostrare come le donne possano ricoprirli con successo proprio grazie al loro diverso approccio, che le differenzia dai colleghi maschi, le ladre di Ocean’s 8 non prendono decisioni poi così diverse da quelle che già prendevano i personaggi maschili del franchise.
Così Gary Ross, decidendo di non sfruttare il solo elemento di novità a sua disposizione (il cast femminile) per dare un passo diverso alla narrazione, fosse anche solo nel ritmo dell’azione, finisce per dirigere un film che non ha la forza che dovrebbe avere un remake né la freschezza che dovrebbe avere uno spin-off.