Memory | il cinema “punitivo” di Michel Franco trova sollievo nella comunione del dolore
Tutto il cinema di Michel Franco racconta dei traumi irrisolti che ci trasciniamo faticosamente tra le rovine del nostro mondo. Un mondo - il suo, come il nostro - popolato da personaggi psichicamente e fisicamente danneggiati, abbandonati a loro stessi, costretti a confrontarsi con solitudine, dolore e vergogna. Una sorella e un fratello lottano con le conseguenze di un atto indicibile in Daniel e Ana (2009), un padre soccombe alla sete di vendetta in After Lucia (2012), un’assistente sociale deve decidere se fare del male a un bambino per salvare il proprio in Through the Eyes (2014) e così via fino a questo nuovo Memory, in cui due persone (Jessica Chatain e Peter Sarsgaard) si trovano insieme, un po’ per caso e un po’ no, a specchiarsi in problemi esattamente speculari. A mettere, per la prima volta nel cinema di Franco, quei tre sentimenti principali - solitudine, dolore, vergogna - in comunione.
Da un lato una donna che non riesce a dimenticare le violenze subite da ragazzina, che vive nel presente tormentata dal ricordo indelebile di un fatto passato. Dall’altro un uomo affetto da demenza che invece ha la difficoltà opposta, quella di non riuscire più a tenere traccia del proprio vissuto. Due persone, insomma, la cui memoria è stata compromessa in modi differenti: in un caso dalla malattia, nell’altro dallo shock per ciò che si è dovuto patire, che annebbia e offusca la percezione di tutto ciò che si vive dopo. Ma sarà proprio questa diversa relazione rispetto al proprio passato che, rispecchiandosi in una diversa gestione della realtà presente, permetterà ai due di avvicinarsi. Da questo scenario iniziale Franco sviluppa quello che apparentemente può sembrare un thriller ma che, risolto parzialmente il mistero iniziale, vira presto su terreni sentimentali da cui il regista messicano, spesso accusato di realizzare film “punitivi” nei confronti degli spettatori, si è sempre tenuto lontano. È così che Memory finisce per rinunciare, almeno in alcuni momenti, a quella crudele distanza che ha sempre contraddistinto la sua filmografia, concedendo persino allo spettatore la possibilità di empatizzare con i protagonisti, di comprenderne gli atteggiamenti respingenti o aggressivi.
Negli ultimi cinque anni sono stati girati moltissimi film sulla demenza (The Father e What They Had, solo per citare i migliori), ma spesso si è deciso di raccontare esclusivamente le ultime fasi della malattia, lasciando ampio spazio anche alle conseguenze che questa ha poi sulla vita dei cosiddetti “caregivers”. In Memory, invece, non si è ancora a quel punto del decorso patologico. Il protagonista maschile ha conservato un minimo di autonomia, si strugge ancora per l’amore ed è capace di provare rimorso. Tutte caratteristiche che lo rendono un personaggio drammaturgicamente attivo. La demenza di Saul, in questo senso, non sposta l’attenzione sugli affetti che lo circondano, su chi deve prendersi cura di lui, ma mette in luce la complessità d’azione e di pensiero di chi si trova a dover afferrare una realtà che sfugge velocemente tra le proprie dita. Le domande che Michel Franco pone riguardano perciò il consenso e il libero arbitrio, più che la perdita delle capacità intellettive e del controllo sul proprio corpo. Può qualcuno innamorarsi ancora, anche se, giorno dopo giorno, è sempre meno simile a se stesso? Come rispettare i desideri di qualcuno che, tra poco, non sarà più in grado di esprimere chiaramente le proprie volontà? Qual è il momento in cui si smette di interiorizzare le proprie esperienze?
Michel Franco gioca con le aspettative dello spettatore, con quella crudeltà esibita che è sempre stata la cifra di un cinema spigoloso, caustico, senza speranza, inafferrabile nella sua violenza e nella sua spietatezza, che difficilmente venivano spiegate o rese comprensibili al pubblico. In questo Memory, invece, tutto ciò che all’inizio sembra inquietante, morboso o angosciante, trova, se non una spiegazione, quantomeno un approfondimento che permette allo spettatore di entrare con più facilità nel disagio di queste due vite irrimediabilmente danneggiate. Una “concessione”, però, che - per via delle tematiche trattate - finisce per non essere meno traumatizzante della precedente inaccessibilità. Davvero, sembra volerci dire Michel Franco, è meglio sapere tutto, vedere tutto, conoscere ciò che il film potrebbe anche omettere? Questa ritrovata possibilità di comprensione sembra essere, in fin dei conti, l’ennesimo colpo che il regista messicano ha deciso di infliggere al proprio pubblico, dopo averlo precedentemente disarmato.