Loro di Paolo Sorrentino comincia “alla Scorsese” e finisce “alla Totò”
Quello di BERLUSCONI è uno dei pochissimi cognomi riconoscibili anche solo dall’iniziale: B. Così compare nelle prime pagine dei giornali o nelle decine di libri che parlano di lui. Uno dei personaggi più divisivi di sempre, eppure una persona in cerca del consenso più ampio possibile. Non deve sorprendere, quindi, che ad occuparsi della sua narrazione per il grande schermo ci sia una persona come SORRENTINO, che spesso sembra cercare l’adulazione ma a cui non di rado il pubblico riserva avversione e malevolenza: S.
LORO 1
Da come inizia Loro 1 è chiara una cosa: S. vuole riprendere l’umorismo e la leggerezza degli esordi (L’uomo in più). Perciò narra il percorso di Sergio Morra (alias del faccendiere Giampy) come se fosse quello del “Lupo” di Scorsese, con zoom a schiaffo, associazioni audaci di immagini e seguendo un passo velocissimo. Berlusconi non si vede per più di un’ora: non c’è Silvio, c’è solo un indefinibile Lui, che aleggia nelle conversazioni di lacchè, papponi, vaiasse e che leggiamo sullo schermo del cellulare. Fra i numerosi personaggi di finzione che affollano la “cour des miracles”, uno dei più inafferrabili si fa chiamare Dio: predispone le regole del gioco e lo supervisiona da una posizione di privilegio. Di lui non si conosce né il nome né il viso ma la sua figura, superiore per gerarchia a quella di Berlusconi, serve a ridimensionare la figura di Lui, che sembra enorme solo se c’è la sua propaganda ad amplificarla, che pare complessa ma invece è così semplice. Così la sua presenza sgombra il campo da ogni possibile dubbio: B. non è Dio, pur essendo uno e trino (RETE 4, CANALE 5, ITALIA 1).
Poi la corsa si ferma: una sequenza che vorrebbe essere surreale (ma è così decifrabile da non avere nessuna carica visionaria) di un camion dell’immondizia che si riversa sulle bellezze romane segna il cambio di passo. La baldoria a bordo piscina in Sardegna messa in piedi da Scamarcio per impressionare B. (che soggiorna in una villa lì vicino) vorrebbe comunicare accelerazione, adrenalina. Invece la regia, che rimane immobile ad ammirare i corpi di donne bellissime che ballano, sembra suggerire qualcosa di diverso. C’è un senso di decadenza (come quello dei gala de La Grande Bellezza) che sembra fuori luogo. C’è immobilismo dove ci dovrebbe essere frenesia. Non c’è ancora il vecchio B. con le minorenni, non c’è ancora l’ansia di chi vuole scacciare via la fine con l’esagerazione. Ci sono giovani ragazzi e sensuali ragazze che aspirano al successo, eppure le immagini esibiscono una “joie de vivre” che la regia non riesce a comunicare (come invece avviene con Scorsese, che, pur non aderendo agli eccessi che inscena, non li guarda mai da fuori).
Il Berlusconi-Servillo arriva in scena come una odalisca felliniana: maschera e non raffigurazione (in Loro 2 si concederà persino dei “micro-pisolini” come quelli del B. di Crozza). La narrazione si fa più sobria, le conversazioni procedono per aforismi. Berlusconi e Veronica ricordano insieme la loro canzone del cuore come Giulio e sua moglie Livia dinanzi alla TV in una delle più famose scene de Il Divo. Loro 1 però non è un film, ma il prologo di un film.
LORO 2
Quello che nel primo episodio era solo una supposizione, ovvero l’influenza di Scorsese, con le prime sequenze di Loro 2 diviene una evidenza. Il Berlusconi persuasore che cerca di vendere dal suo cellulare una casa ad una signora che nemmeno conosce, presa a caso dalle Pagine Bianche, non può che ricordare le “phone sales” del giovane broker DiCaprio agli inizi della sua carriera. È una delle scene migliori di Loro insieme al dialogo fra il Servillo-Berlusconi ed il Servillo-Doris, ovvero un clone ad immagine e somiglianza di B. (una rara immagine che da sola riesce a suggerire l’influenza del “berlusconismo” come modello di benessere da seguire nella celebrazione della furbizia come valore). Loro 2 almeno per la prima ora sembra raggiungere quella corrispondenza della forma con il senso della narrazione che nel primo film non si realizza mai per davvero (proprio per la dissociazione fra ciò che avviene su schermo ed il modo con cui viene ripreso). Così Loro 2 sembra essere una sequenza di gag da bagaglino, con S. che cerca di concorrere con il suo personaggio per il ruolo di “capo comico”, proponendo demenziali soap di Canale 5 con Lady Diana in Congo e deliri visivi con gruppi di ragazze sode e marmoree che si asciugano il sudore sull’inno di “Menomale che Silvio c’è”. Come il “salesman” B. propone ad una ignara signora un residence con sauna, piscina, golf buggy ed ogni lusso immaginabile, così il “salesman” S. non si risparmia (e non ci risparmia) nulla ed inserisce nella sua personale galleria di “clip” le idee più improbabili (e spassose). La moglie Veronica accuserà Berlusconi, con un paragone non casuale, di vivere come in uno dei film di Totò e Peppino, che si basavano proprio sull’efficacia delle singole scene senza curarsi della coerenza della loro successione.
Se ne La Grande Bellezza, ne Il Divo ed in massima misura in The Young Pope, i personaggi principali non vengono mai messi in discussione (perché S. sceglie di parlare solo di figure che lo affascinano), con Berlusconi sembra esserci un “dovere” a cui non è possibile sfuggire: ovvero quello di rinfacciargli le offese, i modi di fare inammissibili per un capo di governo, le origini ambigue della sua ricchezza. Eppure non sono le immagini e la messa in scena a svolgere un ruolo di condanna della figura di B. ma i lunghissimi e didascalici predicozzi che i personaggi rivolgono a Lui, che sembrano così banali e poco incisivi da essere quasi superflui, come se ci fossero solo per rispondere ad una esigenza che invece il film non richiede. Ma come Loro 1 era diviso in due “archi” diversi (quello di Morra e quello di B.), anche il secondo episodio abbandona, man mano che ci si avvicina alla conclusione, la sua verve comica per farsi più serio. E così la luce, che prima era piana ed abbozzava figure bidimensionali, si fa profonda, cominciando a delineare le forme dei personaggi, a scavare nelle loro rughe e a disegnarne i corpi.
Ma lì dove riusciva con efficacia Il Divo, che non voleva confermare quella che era la narrazione comune sul suo personaggio ma crearne una nuova, Loro sembra fallire nel proporre una dimensione di Berlusconi che non sia quella del “self made man”, del geniale uomo di affari, ma una più malinconica e crepuscolare (non dissimile da quella del Fred Ballinger del suo film del 2015). Il senso dell’operazione lo spiega lo “showdown” finale con sua moglie Veronica, che demolisce proprio l’immagine di impresario infallibile del suo compagno. Eppure Loro non riesce sempre a descrivere con forza il penoso declino dell’uomo B. se non a parole (il monologo con Confalonieri). Solo alla fine la narrazione farsesca di Loro lascia spazio al “Paese reale”, con le sue macerie. Quello che emerge con maggiore forza dall’epopea di B. secondo S. non riguarda il personaggio principale, ma l’uomo che lo ha messo in scena. Come B. cerca di far colpo riciclando sue vecchie freddure, così S. ripropone un po’ di sé in ogni sequenza. Come B. vuole scoprire se è ancora in grado di vendere qualcosa ad una persona che neanche conosce, come faceva da giovane, così S. vuol scoprire se è in grado oggi di recuperare quella leggera ironia degli inizi e di inserirla in quello che è il suo cinema adesso.