Licorice Pizza è la celebrazione dello slancio che prelude ad un incontro
Correre è sempre stato un gesto cinematograficamente rilevante, ma sembra essere emersa negli ultimi anni un’urgenza del tutto nuova nel far correre i propri personaggi, specialmente quelli femminili (ma non solo, se si pensa alla corsa di Simon Rex, completamente nudo, in Red Rocket). Corre la Principessa Diana di Spencer in un forsennato montaggio tra passato e presente. Corre la Julie di Honor Byrne in The Souvenir di Joanna Hogg e corre la Julie di Renate Reinsve ne La persona peggiore del mondo di Joachim Trier. E corrono ovviamente anche i due protagonisti di Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson: prima in direzioni diverse, poi uno affianco all’altro e poi, finalmente, uno verso l’altro, trovando il culmine di quel movimento in un bacio a cui si arriva dopo due ore di minuziosa preparazione. Non un momento fugace, come spesso accade nel cinema americano, ma qualcosa a cui il film si avvicina con cautela, lavorando affinché possa esistere la possibilità di quel contatto fisico.
Fin dai due piani-sequenza iniziali, così liberi dall’ossessione del montaggio, la relazione tra Gary e Alana emerge spontaneamente, con la macchina da presa che prima segue i personaggi che camminano e parlano, poi li precede, spostandosi lentamente e imparando a conoscere lo spazio in cui si muovono. È un inizio folgorante che subito proietta il film verso gli anni ’40 e ’50 del cinema americano: stavolta infatti il modello di Paul Thomas Anderson non sembra essere quello di Altman, bensì quello di Billy Wilder. La San Fernando Valley è da sempre la versione “operaia” di Hollywood e Beverly Hills, la zona di Los Angeles dove vive chi “fabbrica” la magia che viene venduta ed esposta altrove. È lì che abitavano i tecnici che hanno realizzato le scenografie de Il Mago di Oz ed è lì che oggi abitano gli elettricisti che illuminano Disneyland e le maestranze che lavorano ai film che poi vengono premiati agli Oscar. Uno spazio ideale, allo stesso tempo vicino ad Hollywood ed escluso da Hollywood: con i tralicci dell’alta tensione che sostituiscono le palme nell’immaginario comune di Los Angeles. Un’ambientazione circoscritta in poche strade che diventa, grazie alla regia di Anderson, uno scenario vastissimo che appare sempre nuovo, infinito, gravido di possibilità che si rivelano ad ogni angolo.
Il cinema di Anderson è ancora una volta una faccenda di “brief encounters” (come quello del film di David Lean, che già aveva ispirato il precedente Il Filo Nascosto) che pian piano trovano un loro culmine emotivo. Alana Haim, cantante del gruppo Haim, coinvolta con tutta la sua vera famiglia nel film, e Cooper Hoffman, figlio di Philip Seymour Hoffman (che con Paul Thomas Anderson aveva formato un sodalizio cinematografico eccezionale) sono corpi fuori norma per Hollywood calati in un contesto assolutamente hollywoodiano nella fattura, nell’illuminazione, nelle atmosfere. Lei, venticinquenne che vorrebbe finalmente essere riconosciuta come donna adulta, che un po’ sì vergogna ad uscire con qualcuno più piccolo di lei, ma allo stesso tempo è affascinata dall’intelligenza vivace del ragazzo e dalle sue continue idee di business. Lui, perdutamente innamorato e in cerca di uno sbocco che lo qualifichi professionalmente, prima come attore, poi come venditore di materassi ad acqua e dopo ancora come gestore di sale giochi quando i flipper tornano legali.
I due si prendono, si lasciano, si inseguono per perdersi e ritrovarsi continuamente, in un film che sembra sempre sul punto di cominciare veramente, che ogni volta pone le basi di una narrazione che sembra essere quella principale e invece non è. Paul Thomas Anderson è bravissimo nel fare di questi falsi slanci il vero motore di un film che vive nei vicoli ciechi del proprio racconto, si alimenta di camei e digressioni, si interrompe e si nega costantemente scena dopo scena. In una sequenza notturna formidabile, in cui Alana conduce un camion senza più carburante giù per le colline di Los Angeles, la ragazza guida con fermezza il mezzo una curva dopo l’altra, con lo sguardo fisso e le mani sicure sul volante. È in quella sequenza che il suo personaggio assume finalmente una collocazione precisa in un film che fino a quel punto aveva giocato sulla sua alterità (anagrafica e caratteriale) rispetto al contesto.
A funzionare molto meno sono semmai i momenti in cui Licorice Pizza abbandona il terreno su cui è più a suo agio per seguire le orme di C’era una volta ad Hollywood, perdendosi nel caleidoscopio di personaggi noti (Sean Penn con Tom Waits al seguito, Bradley Cooper nei panni del vero Jon Peters, parrucchiere di Barbara Streisand) e freak californiani, poco significativi nel racconto di un’epoca e schegge di un altro film che sembra scalciare per emergere. La maestria di Paul Thomas Anderson si rivela, alla fine di tutto, proprio grazie a ciò che è avvenuto sotterraneamente: lavorando come il miglior cinema commerciale americano sa fare, spinge i personaggi gli uni contro gli altri e così rende evidente allo spettatore perché proprio quei due comprimari siano riusciti a non essere inghiottiti dal viavai caotico e travolgente della narrazione, fino a stagliarsi finalmente su tutto il resto e a testimoniare ancora una volta, dopo il finale di Ubriaco d’Amore, la bellezza dell’incontrarsi.