Alice Rohrwacher firma con Lazzaro Felice il suo film più ambizioso (e meno efficace)
Lazzaro Felice comincia narrando una vicenda di abusi e miseria: quella di una numerosa compagnia di servi che devono lavorare (senza alcuna ricompensa se non la concessione di vivere insieme alla propria famiglia) agli ordini di una Marchesa che li considera animali. Alice Rohrwacher fin dal primo secondo sceglie una narrazione che non ha nulla di convenzionale e che, pur non volendo cercare per nessuna ragione il realismo, rimane comunque fedele alla cornice bucolica nella quale si svolge. È proprio in quei primi passaggi che il film svela la sua vera forza: descrivere il mondo della campagna in una maniera unica, che oscilla fra il melò della epopea immaginaria di Heimat e l’amore per la fiaba e la magia proprio di Ermanno Olmi, senza però mai abbracciare davvero nessuno dei due approcci. Perciò quando la dimensione di favola, che fino ad allora il film voleva solo suggerire, irrompe nella narrazione con il suo immaginario surreale, Lazzaro Felice abbandona le idee che sembrava avere a cuore dall’inizio per proseguire su di un percorso (sulla esclusione e sulla marginalizzazione) meno incisivo di quello che invece chiude senza la premura di dare ad esso una parvenza di conclusione.
Perfino il vero “colpo di scena” del film, quello che dovrebbe capovolgerne il senso e dare all’opera una nuova direzione, viene escisso con forza e sembra servire solo come “scusa” per cambiare il perno della narrazione. La Rohrwacher rinuncia ad approfondire un pezzo di trama che invece chiedeva maggiore spazio, passando con inspiegabile urgenza ad analizzare le conseguenze che quell’episodio cardine ha sui personaggi e ponendo chi guarda dinanzi alle ripercussioni di una vicenda che rimane vaga e generica. Perciò quando Lazzaro Felice decide di muoversi verso una narrazione più fiabesca, preferendo al suo iniziale fascino arcadico un approccio più immaginifico, sembra non avere una reale ragione per farlo ed il cambio di passo così radicale non aggiunge nulla allo sviluppo della parabola di Lazzaro.
Il nuovo lavoro della Rohrwacher è quindi un film dall’incedere sconnesso e poco lineare, che evidenzia in maniera ancora maggiore che nei due film degli esordi la sua maniera davvero singolare e personale di avvicinarsi con lo sguardo alle persone e a quelle che a loro si legano. Pur essendo un film i cui personaggi principali sono due ragazzi, lo sguardo della Rohrwacher non lascia mai sole le comprimarie donne, che anche nelle sequenze corali sembrano avere un ruolo di grande rilevanza per come ridono in silenzio, per come osservano le scene o ancora per come si muovono sullo sfondo. Sia Lazzaro che Tancredi non possono fare a meno delle figure femminili che di loro si prendono cura: un legame così profondo che da esso sembra dipendere persino la sopravvivenza dei due ragazzi (e poi uomini). Eppure la Rohrwacher riesce a far comprendere il ruolo decisivo che le donne hanno nel suo film con pochissime scene e minuscoli indizi.
Lazzaro Felice non sarà il lavoro migliore di Alice Rohrwacher, pur essendo il più complesso ed ambizioso. È un film che cerca il sacro nel candore del suo personaggio, una figura che è così buona da non essere reale in un mondo dalla concezione manichea, che alla purezza degli animi oppone la furbizia nel sapersi arrangiare e nel riuscire ad aggirare il prossimo (perciò ai personaggi buoni non si può voler male anche quando sbagliano, come a quelli pessimi non si può voler bene perché marci ed irrecuperabili). Ma è proprio quando il film sceglie di aderire ad una narrazione fiabesca che Lazzaro Felice, proprio come il suo personaggio, inciampa e cade. Senza più rialzarsi.