Lanthimos compie il definitivo passo verso Hollywood con La Favorita
Se Il sacrificio del cervo sacro era un (maldestro) tentativo di Yorgos Lanthimos di aprirsi ad un pubblico più ampio senza perdere quello che invece era stato catturato anni fa dal suo sguardo obliquo ed imprevedibile sulla miseria umana, adesso La Favorita è il passaggio finale di una “evoluzione” verso il cinema pop che era già cominciata con The Lobster. E se il precedente film sembrava quasi vergognarsi della sua natura di revenge movie, preferendo al rigore del genere la velleità di grandangoli ed inquadrature geometriche, adesso il suo primo film compiutamente hollywoodiano è finalmente un’opera onesta nei confronti dello spettatore. La Favorita azzecca il cast ed il tono, scegliendo di rappresentare al cinema, con un tempismo perfetto, una complessa femminilità al potere che si contrappone al semplicismo di maschi estromessi da tutto. Se gli uomini del film si dilettano con parrucche, pizzi e merletti, alle donne rimane il compito di andare a caccia e di sporcarsi (letteralmente) le mani con escrementi e liquidi corporei di ogni sorta.
Il nuovo lavoro di Lanthimos comincia come ogni altro suo film (e come numerosi film di Michael Haneke): c’è un sistema chiuso, con delle leggi che lo governano e con dei rapporti di forza già instaurati, nel quale si inserisce un elemento che crea disordine e rimette in discussione quelle che per i personaggi che agivano al suo interno sembravano certezze. Ne La Favorita l’elemento di imprevedibilità che entra in gioco è rappresentato dal personaggio di Emma Stone, una “lady" caduta in disgrazia che adesso vuole recuperare il potere perduto utilizzando ciò che ha a propria disposizione (in primis il suo corpo avvenente) per arrivare ai vertici del palazzo reale e poter da lì manipolare una regina (Olivia Colman) troppo presa dai suoi problemi (e dai suoi conigli) per potersi dedicare al governo del regno. Il regista greco abbandona così il tono da tragedia greca de Il sacrificio del cervo sacro e abbraccia i toni farseschi di una commedia in costume brillantemente orchestrata, spogliandosi quasi del tutto della tipica pretenziosità che lo contraddistingue e della paura di far ridere anche attraverso le cose più basse e triviali (in una scena del film si arriva persino a parafrasare Mel Brooks).
Stavolta persino il caratteristico fish-eye di Lanthimos sembra funzionale alla narrazione e non un superfluo vezzo artistico. Il regista filtra attraverso il suo occhio la Storia, deformandola. Sceglie un setting da period drama e si diverte a sovvertirne tutte le regole, arrivando in alcuni momenti a sfiorare la parodia. Ancora una volta è sul corpo dei suoi personaggi che emergono i conflitti irrisolti e le colpe mai davvero riconosciute, nelle piaghe di Anna e nelle cicatrici di Abigail e Sarah: sfregi e non segni di valorose lotte. È incredibile il lavoro che Lanthimos compie sulle sue attrici, struccandole, “rovinandole” e modellandole per scopi prettamente cinematografici. L’ambiente rigido in cui si svolge la narrazione stavolta è un palazzo reale, ambiente che è il simulacro di un ordine costituito da capovolgere, come già la prigione di The Lobster o la villa borghese de Il sacrificio del cervo sacro. Un luogo che è esplicitamente “falso storico” (come tutto il ‘700 del film, che svela il suo anacronismo nei dialoghi molto moderni) ma illuminato con luce naturale e messo in scena con quella cura che lo rende credibile.
Ma se i suoi precedenti film erano “falsamente” kubrickiani, la sua nuova opera deride i rituali aristocratici e la grandeur dei ricchi come faceva Barry Lyndon. C’è tanto cinema demenziale nel nuovo film di Lanthimos (le corse di anatre con i nobili che esultano in maniera scomposta sembrano uscire da uno sketch dei Monty Python, così come l’assurdo ballo di Joe Alwyn sembra un’idea del trio Zucker-Abrahams-Zucker) che, dopo il suo primissimo esordio, torna a dirigere un film non scritto da lui (né tantomeno dal suo fidato collaboratore Efthymis Filippou). Perciò il regista sceglie di usare le attrici per far emergere il suo tipico disprezzo per i personaggi che mette in scena (caratteristica di tutti i suoi film, che in alcuni casi sfocia nel sadismo). Così le tre attrici sembrano a loro volta non amare i personaggi che interpretano: la regina di Olivia Colman è patetica, mentre le due sfidanti sono mosse da una cupidigia che le stesse Rachel Weisz ed Emma Stone sembrano guardare con orrore.
L’umorismo corrosivo del film, che gioca tra l’ironico ed il grottesco, è abbracciato con grazia dalle tre attrici, che incarnano ruoli e archetipi inediti per le donne sul grande schermo. Il film di Lanthimos è l’esempio migliore del nuovo cinema americano: sempre più centrato sulle donne, interessato ad ampliare lo spettro dei caratteri e degli atteggiamenti propri delle figure cinematografiche femminili, così da renderle sempre più complesse. Quello del regista greco è un meccanismo perfetto in cui ogni ingranaggio è dove dovrebbe essere. La Favorita non sarà forse il suo lavoro più affascinante e peculiare, ma è finalmente un film consapevole del fatto che per essere “popolare”, nonché commercialmente appetibile ed editorialmente furbo, non si deve necessariamente rinunciare alla propria sofisticazione.