In memoria di Agnès Varda
Regista donna (fra le pochissime operative in Francia e in Belgio negli anni ‘50, con l’eccezione di Jacqueline Audry) non appartenente al gruppo dei Cahiers du cinéma formato da Godard, Rivette, Truffaut e Chabrol, che si era appropriato della bandiera della “nouvelle vague”, Agnés Varda è sempre stata percepita come un corpo estraneo all’interno del cinema europeo, unicità che lei stessa ha coltivato e rivendicato nel corso degli anni, affermando la propria individualità. Film come L’Opéra Mouffe contestavano l’immagine della donna ereditata dal periodo del governo di Vichy (il cui motto era Travail, famille, patrie) ma ancora accettata come quella predominante negli anni dei suoi primi lavori cinematografici. Varda, il cui cinema può essere compreso solo se “provato” attraverso i sensi, ha reso su schermo la stanchezza fisica delle future madri, il cui mutamento nel corpo era accompagnato da un mutamento della propria collocazione nella sfera pubblica. La gravidanza come processo politico e sociale di incorporamento, ma soprattutto come “esperienza” fisica. Il corpo della donna come “limitazione” da sopportare (nel segmento Des Angoisses) o come manifestazione di bellezza da far ammirare (e da ammirare attraverso il proprio riflesso, come nel segmento Des Amoureux). Un’ambiguità sulla dimensione “corporea” della donna che sembrava rimandare a quella già espressa da Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso (pubblicato nel 1949).
Il cinema femminista di Varda, come spesso è stato definito, non si limitava ad essere femminista nel contenuto, ma persino sul piano formale. Nel 1975, poco dopo la sua seconda gravidanza, la regista accettò l’offerta dell’emittente televisiva tedesca Zdf (che sostanzialmente le dava carta bianca) e scelse di realizzare Daguerréotypes, un film ambientato nella stessa via di Parigi in cui lei realmente viveva, per non doversi allontanare troppo dal figlio appena nato. “Volevo partire dall’idea di attaccamento che le donne hanno verso la propria casa, così decisi di girare il film rimanendo fisicamente collegata alla mia residenza”, dichiarò la Varda, che srotolò un cavo elettrico di 80 metri e realizzò tutto il lungometraggio a quella distanza dalla propria casa. Un vero e proprio “cordone ombelicale” che la teneva allacciata al luogo in cui viveva. Anche Daguerréotypes si interrogava sulla moltitudine di immagini attraverso le quali la donna veniva rappresentata nelle pubblicità e sulle copertine delle riviste, arrivando a suggerire attraverso il montaggio (quindi sempre e solo attraverso l’utilizzo del linguaggio cinematografico) persino un collegamento fra questo tipo di rappresentazione del corpo femminile e la violenza domestica.
Nel cinema di Agnés Varda c’è sempre stata una costante dialettica fra lo spazio in cui i personaggi si muovevano e il corpo dei personaggi che “incorporavano” quello spazio, somatizzandolo. Così la stessa Varda spiegava che “non si può capire il viaggio di Cléo (in Cléo de 5 à 7, ndr) senza ricordare, per tutto il tempo, che si tratta di una donna bella, alta, bionda, che è in pericolo, che è minacciata dalla paura e dalla malattia”. E così, osservando il vagabondaggio di Mona in Sans toit ni loi, si deve sempre tenere a mente il suo corpo di donna nascosto sotto spessi strati di vestiti di pelle. Come scriveva Sandy Flitterman-Lewis, quando Cléo lascia il suo appartamento e comincia il suo imprevedibile girovagare (in cui hanno un ruolo fondamentale anche i mezzi di trasporto, pubblici e privati) che alla fine la condurrà in ospedale, lei “cessa di essere un oggetto costruito dagli sguardi degli uomini” e “assume il potere della visione, una visione soggettiva sulla sua vita”. Agnés Varda ha indagato nel corso della sua carriera la relazione esistente fra lo spazio cinematografico, il tempo che lo attraversa e le persone che lo occupano. Nel cortometraggio Du côté de la côte, commissionato da “l’Office national du tourisme” per promuovere il turismo in Costa Azzurra, la regista belga decise di non porre lo sguardo sulla popolazione indigena, sui loro costumi e sulle loro tradizioni, ma su quella massa di gente che invece abitava la Riviera francese per un periodo di tempo limitato (turisti, gente di passaggio). La Costa Azzurra diveniva in quel film una sorta di proscenio che esisteva al solo scopo di ospitare una continua passerella di persone già consapevoli di dover andare via. Eppure la rappresentazione cinematografica di queste folle che si muovevano, abitando e dis-abitando le spiagge francesi, era la sola realmente “tangibile”, percepibile come autentica e reale, non fasulla come l’idealizzazione di un luogo messo in scena “svuotato” di tutto ciò che lo attraversava.
Con il termine “cinécriture”, Agnés Varda indicava la scrittura cinematografica, intesa come processo specifico che nasce dall’emozione visiva e sonora” e che ha il suo fine ultimo nella creazione di una “forma che ha a che fare con il cinema e con il cinema soltanto”. Un processo creativo che si è reso ancora più evidente negli ultimi anni della sua attività di regista, con la digitalizzazione del cinema e il suo progressivo allontanamento dai cosiddetti “high-end films”. Le nuove fotocamere digitali (economiche e di piccole dimensioni) hanno permesso a Varda di tornare alla libertà espressiva del 1957, di sentirsi nuovamente coinvolta con il proprio corpo nella realizzazione dei suoi film. Sia che stesse seguendo la corsa di un maratoneta per le strade di Parigi o documentando una dimostrazione contro il Front National di Jean Marie Le Pen, il cinema di Varda era sempre immerso nell’arena pubblica, aveva l’esigenza di muoversi fisicamente all’interno della stessa e per questo necessitava di mezzi con cui poterlo fare agilmente.
Ma non per questo era un cinema disinteressato al problema estetico, che invece spesso presentava (senza risolverlo) ai suoi spettatori (“la patate ultime-sublime” in Les Glaneurs et la glaneuse). Nel suo saggio dedicato alla carriera di Agnés Varda, Benezet definisce il cinema della regista un cinema “of interpellation”, che chiede a chi guarda di rispondere e reagire alle sue immagini che nascono dai corpi. In Réponses de Femmes, che nella sua definizione di “cinétract” richiamava i cortometraggi muti prodotti nel periodo sessantottino da Marker, Resnais e Godard per contestare “l’oppressore” De Gaulle, Varda utilizzava una moltitudine di immagini di donne per affermare che “il corpo femminile non è mai stato e non sarà mai neutrale” (Qu’est ce qu’être une femme? C’est naître dans un corps de femme).
Se i “cinétracts” del ’68 venivano distribuiti al di fuori dei canali ufficiali ed erano destinati a persone già schierate politicamente, che già condividevano i valori che quei lavori veicolavano, il manifesto femminista di Agnés Varda fu invece realizzato per essere trasmesso in prima serata, a testimonianza del suo desiderio di raggiungere il pubblico più ampio possibile. In una intervista riguardante il suo film L’une chante, l’autre pas, un musical su aborto, matrimonio e maternità, Varda affermò in maniera inequivocabile: “Solo evitando di essere troppo radicale ma veramente femminista, mettendo in secondo piano la propria coscienza di sinistra, è possibile far vedere il proprio film a 350.000 persone in Francia”. L’obiettivo ultimo del cinema di Agnés Varda era quello di veicolare un messaggio (anche monco) a tanti spettatori e non quello di esprimere tutta la propria radicalità in lavori destinati a pochi.