Il Mio Capolavoro mette in scena la miseria umana per interrogarsi sull’arte
Il cinema di Gastón Duprat (e del suo usuale collaboratore Mariano Cohn, qui in veste di produttore) sembra usare metodicamente delle minuscole storie di miseria umana (un assistente sociale che lucra sulle creazioni di un anziano con problemi psichiatrici, un premio Nobel arrogante che umilia i suoi concittadini, un pittore rancoroso che riversa il suo livore nelle proprie opere) come pretesto per interrogarsi ogni volta sul significato di opera d’arte. Chi conferisce questo “status” ad un quadro o addirittura ad un oggetto? Conta più l’opera in sé o il contesto nella quale questa è stata ideata, plasmata ed infine esposta? Un’opera d’arte è tale solo nel momento in cui la si colloca all’interno di una istituzione museale?
Duprat con Il Mio Capolavoro compie un’operazione similare a quella già sperimentata nel suo El Artista: affiancare ad una dissacrante critica dell’arte contemporanea (oggetto spesso di scherno e di derisione) una indiscutibile fiducia nel ruolo dell’arte stessa ed una sofisticata riflessione sui meccanismi del mercato delle opere d’arte. La valutazione di queste ultime non può basarsi solo sulle loro qualità esibite e non può prescindere invece dalle loro qualità “relazionali”. Qualità che si delineano attraverso pratiche sociali con cui si attribuisce arbitrariamente lo “status” di opera d’arte a qualcosa che non si giudicherebbe come tale se ci si fermasse a valutarla superficialmente attraverso le sue caratteristiche intrinseche. Le Brillo Boxes di Andy Warhol, ad esempio, erano indistinguibili dalle scatole di cartone che venivano vendute in quegli anni nei supermercati. Come spiega Arthur Danto, però, ciò che conferiva alle “boxes” di Warhol lo status di opera d’arte era la teoria artistica alla quale quelle scatole venivano associate. Ciò che impedisce a determinate opere di diventare tutt’uno con l’oggetto reale che sono è quindi l’inserimento di queste all’interno di un “mondo dell’arte” basato su specifiche teorie ben definite. Ciò che si sa o si crede di sapere riguardo un’opera d’arte non conta meno di ciò che si vede attraverso lo sguardo. Anche il titolo dell’opera può permettere di rivelare significati altrimenti inaccessibili se ricercati utilizzando la banale analisi figurativa di ciò che si presenta davanti ai nostri occhi.
Il Mio Capolavoro, quindi, si complica durante il suo svolgimento, aggiungendo alla narrazione sottotrame e colpi di scena, ma alla fine si arrotola attorno allo stesso tema di cui già parlavano El Artista e El Ciudadano Ilustre. Come il film del 2016 bastonava il provincialismo dei cittadini di Salas ed allo stesso tempo non risparmiava il protagonista, pessimo intellettuale mosso da biechi secondi fini, così Il Mio Capolavoro sembra prendersela fin dall’inizio con le persone incapaci di riconoscere il reale valore del lavoro di Renzo Nervi, ma lo stesso pittore al termine della visione ne uscirà fuori come una persona squallida ed ingiustificabile. Tutte le vicissitudini che accadono al protagonista modificano il modo in cui i suoi quadri vengono percepiti e giudicati dal pubblico e dalla critica. Come scriveva John Berger, sapere che il dipinto Campo di grano con volo di corvi di Van Gogh venne ultimato dall’artista prima del suo suicidio, modifica il modo in cui questo ci appare. Quei corvi ci sembreranno più minacciosi e funerei di quanto invece ci sarebbero apparsi prima di conoscere quel dato “esterno” relativo al quadro. Duprat conosce bene queste teorie come le conoscono bene anche i suoi personaggi, che infatti sfruttano queste loro conoscenze per soddisfare i propri bisogni economici.
Il riconoscimento di un “artefatto” come opera d’arte deve avvenire necessariamente all’interno di una cornice di convenzioni e rituali che si è evoluta nel corso del tempo. Il luogo in cui avviene il conferimento di questo “status” nel cinema di Duprat e Cohn è la galleria d’arte. Ma la persona o le persone che operano il conferimento appartengono ad un “mondo dell’arte” che, paradossalmente, non è solo costituito da professionisti educati in modo particolare, ma da chiunque graviti attorno a quel mondo pur non avendo consapevolezza delle pratiche artistiche o conoscenza approfondita della storia dell’arte. È di questo che parla il cinema di Duprat e Cohn. I due registi svelano il processo attraverso il quale un’opera d’arte diventa tale utilizzando un umorismo cinico e corrosivo che parte sempre da altre questioni (personali e private) per giungere ogni volta al medesimo traguardo.