In Hereditary il regista è la minaccia ma sono i cliché ad uccidere
Se c’è un film recente che più di altri ha cambiato il proprio genere di riferimento, rendendo quasi impossibile riconoscerlo per i continui cambi di tono e di atmosfera, quello è sicuramente Kill List di Ben Weathley. Quella strana opera del 2011 cominciava infatti come un kammerspiel famigliare, assumendo i ritmi compassati tipici dei drammi da camera, proseguiva come un noir, seguendo (solo superficialmente) gli stilemi del genere investigativo, e terminava come un cupissimo horror con un finale di rara ferocia. Hereditary, il nuovo film di Ari Aster, sembra voler fare proprio quello che già faceva Kill List: comincia infatti mostrando la complicata situazione di una madre che deve farsi carico di una figlia con disturbi mentali, per introdurre il suo vero tema (quello delle possessioni demoniache e delle sette, proprio come il film di Weathley) solo successivamente.
Il grande merito di Aster sta sicuramente nel voler proporre un tipo di cinema horror che non vuole tanto far paura per quello che racconta, ma per il modo che sceglie nel farlo, ovvero attraverso i movimenti di macchina, gli stacchi di montaggio e le soluzioni visive più o meno ardite che utilizza per mostrare una minaccia che incombe in ogni momento sui protagonisti. Minaccia che sembra essere rappresentata proprio dal regista stesso e non dai demoni di cui parla la trama, perché Aster sembra godere del male che infligge ai propri personaggi ed è la sua totale mancanza di compassione verso la loro sorte il vero elemento su cui sembra fondarsi questo film che in alcuni momenti (specialmente quello da cui poi prenderà il via la storia) riesce a stupire per la spietatezza delle sue trovate.
Eppure se l’obiettivo di Aster vorrebbe essere quello di destabilizzare il proprio pubblico, togliendo allo spettatore qualsiasi punto di riferimento, nel suo film ogni snodo fondamentale per la narrazione viene ricondotto ad immagini e situazioni facilmente riconoscibili perché legate a modelli cinematografici che il regista statunitense non cerca di superare o di rielaborare (come invece faceva Weathley) ma si limita a riproporre con un gusto estetico differente.
Dalla prima formidabile inquadratura, quando la macchina da presa si avvicina ad una casa in miniatura fino ad inquadrarne una stanza, nella quale poi entrerà uno dei personaggi, è chiaro come Hereditary abbia dei riferimenti stilistici per nulla banali. Ma questa sofisticazione nella messa in scena non sembra essere sufficiente a dare al film una forma convincente nella quale far convergere in maniera coerente i numerosi elementi orrorifici (spesso provenienti da luoghi cinematografici molto distanti fra loro) che accumula nel corso della sua durata. Sarebbe facile citare Polanski, ma della imperscrutabile ed allucinata ambiguità del regista polacco Aster raccoglie ben poco, decidendo di mostrare ad un certo punto quell’oggetto del mistero che invece Polanski non svela mai.
Così i personaggi di Hereditary sembrano essere minacciati dal regista che li dirige, che per loro cerca sempre il destino più doloroso e crudele, ma alla fine ciò che veramente finirà per ucciderli sarà il carico di situazioni già viste nelle quali cadranno inevitabilmente vittime.