Happy End è un compendio della carriera di Michael Haneke ma con uno sguardo nuovo
Anche ai maestri del cinema può capitare di perdere la creatività. E quando succede non è raro che decidano di recuperare quello che già avevano messo in scena precedentemente con successo in stanche operazioni di “rivisitazione”. Lo abbiamo visto chiaramente con Francofonia di Sokurov (una semplice rielaborazione del suo celebre Arca Russa) ed ancora con il Song to Song di Malick. Questo nuovo Happy End di Michael Haneke apparentemente si presterebbe a quelle accuse di scarsa inventiva per la sua natura chiaramente autoreferenziale e citazionista. Eppure a cambiare radicalmente è l'approccio del regista su quei temi che aveva già presentato e discusso nelle sue opere passate.
Happy End si apre con alcuni brevi video ripresi di nascosto dallo smartphone: c'è il mistero di Nulla da nascondere (ci si chiede chi sia il voyeur e quale sia il senso di quei filmati) ma anche il sadismo di Benny's Video (viene ripreso un criceto mentre qualcuno si diverte a somministrargli antidepressivi). E c'è persino una componente “seriale” inaspettata: Jean-Louis Trintignant è lo stesso Georges del precedente Amour. Ma non mancano certamente i temi dell'innocenza solo apparente dei bambini e del disfacimento della borghesia europea. Eppure questa summa del cinema di Michael Haneke assomiglia ben poco al cinema di Michael Haneke.
Perché se il regista austriaco è famoso per la crudeltà con cui “disseziona” i suoi personaggi, per uno sguardo da entomologo che non concede spazio ad empatia e compassione, in questo Happy End sembra invece presentare quelli che sono stati i protagonisti del suo cinema nel corso degli anni mostrandoli per quello che sono nella normalità e senza invece spingerli agli estremi della loro escoriazione. E questo comporta un significativo cambio di tono, che non è più quello esclusivamente duro e violento ma può essere persino ironico ed addirittura tenero in alcuni momenti.
“Happy End è una summa del cinema di Michael Haneke che assomiglia ben poco al cinema di Michael Haneke”
Come già avveniva in Code Unknown non c'è una visione univoca imposta dallo sguardo insindacabile del regista ma il continuo scambio di punti di vista che sono quelli dei vari membri della famiglia Laurent. E se c'è uno stile certamente inconfondibile, che è quello delle lunghe inquadrature e dei campi totali nei quali accade improvvisamente qualcosa di “dirompente”, c'è anche una maniera di narrare la propria storia che non specifica mai quale personaggio stia effettivamente agendo (fenomenali le chat mostrate tramite schermate del computer senza indicare chi stia scrivendo). Ed addirittura la quasi totalità degli snodi fondamentali della storia avviene fuori scena e chi guarda deve confrontarsi con le conseguenze di azioni di cui non è stato spettatore, come per l'impiccagione de Il Nastro Bianco.
Come nella scena del tragico incidente sul lavoro osservato da una telecamera di sicurezza, ci si chiede se dietro a quelle immagini ci sia davvero un “soggetto” che guarda o solo una macchina che registra la realtà. Ma a spiazzare davvero è una minuscola scena in cui la giovane Eve usa il proprio computer per guardare il nuovo video del suo “youtuber” preferito. Una prova di come il settantacinquenne Haneke sia pienamente consapevole dei cambiamenti della società e decisamente più moderno di tanti autori con meno anni sulle spalle.