Glass, la trilogia di Shyamalan si conclude senza tradire la sua origine
Glass, esattamente come il primo film della trilogia che ora conclude, non è un film di supereroi ma un film sui supereroi. Sono passati diciannove anni e per ovvie ragioni gli eroi a cui si fa riferimento (anche se non in maniera esplicita) non sono più quelli su carta, bensì quelli al cinema. Shyamalan è consapevole di ciò (lo stesso percorso produttivo di questo suo mini franchise testimonia una lucida comprensione dei meccanismi industriali di oggi) ma decide altrettanto scientemente di non trasformare mai il suo film in un cinefumetto, compiendo quella “naturale” evoluzione che in molti invece si aspettavano. Non ci immedesimiamo nelle vicende dei personaggi, non partecipiamo alle loro decisioni, come invece avviene nei cinecomics, ma osserviamo i tre comprimari dall’esterno. Se in Unbreakable il personaggio di Samuel Jackson cercava di convincere quello di Bruce Willis del fatto che fosse effettivamente dotato di capacità sovra-umane, adesso qualcuno cercherà di convincere entrambi (e con loro James McAvoy, il protagonista di Split) del contrario, cioè che non possono esistere supereroi nel mondo reale e che i “poteri” che loro si attribuiscono sono in realtà spiegabili attraverso la scienza e la razionalità.
Sempre in linea con Unbreakable, anche in Glass tutto ciò che un normale film di supereroi racconterebbe attraverso la magniloquenza e gli effetti speciali, viene invece ridotto di scala. Gli scontri si svolgono in ambienti di modeste dimensioni, non diventano mai grandi battaglie ma lasciano la possibilità allo spettatore di fantasticare su storie epiche che potrebbero coinvolgere gli eroi del film ma che non vengono mai mostrate. Anzi, alcune di queste potenziali battaglie vengono addirittura spiegate ed illustrate senza che poi ci sia mai la possibilità di vederle su schermo. Il nuovo film di M. Night Shyamalan deve ancora molto all’immaginario fumettistico cartaceo (la caratterizzazione dei personaggi fatta con pochissimi tratti, alcune situazioni che sembrano uscire da una storia a fumetti degli anni ’50) ma questa volta non nasconde il desiderio di svelare i meccanismi prettamente cinematografici che si celano dietro le storie di supereroi sul grande schermo.
Se Unbreakable era un film su David Dunn e Split era un film su Kevin Wendell Crumb, adesso Glass già dal titolo si riferisce al terzo personaggio, quello di Elijah Price, genio malefico costretto su di una sedia a rotelle a causa della patologia cronica (osteogenesi imperfetta) che lo affligge. Eppure il Mr. Glass di Jackson non lo sentiremo parlare (né tantomeno lo vedremo muoversi, perché sotto sedativi) per tutta la prima metà. Sarà invece la regia di Shyamalan a farci capire che è comunque lui il personaggio principale, quello a cui ruota attorno la trama, attraverso poche inquadrature che lo mostrano solo nel corridoio dell’ospedale nel quale è rinchiuso, dopo una delle sue inspiegabili “fughe” notturne. Nessuno riesce a capire come faccia ad uscire dalla sua cella e Shyamalan usa il linguaggio del suo genere d’elezione (il thriller) per farci capire che quell’uomo “di vetro”, ridotto ad uno stato larvale e perennemente immobile, in realtà nasconde un mistero che ci verrà svelato solo in seguito. Paradossalmente è proprio grazie al suo silenzio e alla sua inerzia che capiamo fin dall’inizio che il vero protagonista della storia sarà lui e non, ad esempio, McAvoy (ancora un po’ macchiettista come in Split), che compare in scena per molto più tempo ma parlando tantissimo senza mai dire effettivamente nulla di rilevante.
Dopo aver rinchiuso i tre personaggi in un ambiente unico (un manicomio criminale), come già aveva fatto in The Visit e Split per ragioni di budget, il regista indo-americano trova un ritmo che gli è congeniale e sfrutta il proprio spazio come nessun altro farebbe, posizionando le celle di sicurezza dei personaggi in maniera tale che questi possano guardarsi anche solo per un secondo quando qualche infermiere entra o esce dalle loro stanze. In Glass, Shyamalan riesce a mettere in scena soluzioni visive di rara inventiva, che da sole riescono a dire molte cose sui personaggi e sul film che li riguarda, ma allo stesso tempo affossa la narrazione spiegando a parole anche il superfluo (il fatto che questo compito “esplicativo” sia poi affidato a Sarah Paulson, che non brilla nei panni della dottoressa Staple, non aiuta). Unbreakable ingannava lo spettatore facendogli credere di stare assistendo alla origin story di un supereroe (Dunn), per poi fargli scoprire che invece il film era in realtà l’origin story di un villain (Price). Adesso Glass tenta di nuovo di rifondare il ruolo di Elijah, inserendolo in una cornice metanarrativa.
Come The Visit e Split, il nuovo film di Shyamalan ha le dimensioni tipiche dei film Blumhouse (per realizzarlo sono stati spesi solo 20 milioni di dollari, pochissimi se si considerano gli altri blockbuster supereroistici) ma purtroppo non il loro rigore. In Glass emergono alcuni dei difetti maggiori di questo regista scostante, forzature narrative e piccole assurdità, eppure al termine del film si avrà comunque l’impressione di aver visto qualcosa di diverso, magari sgraziato, però peculiare. Assolutamente non perfetto, ma comunque significativo.