First Reformed, il film di Schrader che si fa immagine sacra
Il nuovo film di Paul Schrader è un film sacro, pur non parlando mai davvero di religione e non avendo mai il desiderio di rivelare la Fede come “apparizione” sul mezzo filmico ma di indurla in chi guarda usando il linguaggio del cinema. Sembra richiamare Ingmar Bergman non solo nei luoghi (la chiesa del film è uguale a quella di Luci d’Inverno) ma anche nel modo di riprendere i numerosi dialoghi, avvicinando la macchina da presa ai propri personaggi, inquadrandoli quasi sempre in primo piano, oppure includendoli in una unica ripresa fissa. Il reverendo Toller è un parroco anomalo, incapace di seminare alcunché nel cuore dei suoi fedeli (come dovrebbe fare invece un uomo di Chiesa) ma che si lascia influenzare proprio da quelle persone che dovrebbe soccorrere. Saranno loro, quindi, a lasciare che le proprie sofferenze individuali ed esclusive crescano in lui sino a divenire condivise. È un “Padre” che non riesce ad esserlo per davvero perché già “padre” (di famiglia) che vive con il rimorso del figlio ucciso in guerra per via del suo consiglio di arruolarsi.
Schrader rifà Bresson, ne riprende l’aspect ratio (1:37:1) e ne segue i passi con religiosa devozione, chiedendo a chi guarda di compiere lo sforzo più grande possibile: quello di credere nelle immagini con uguale convinzione. Anche a quelle meno credibili, in cui i corpi si alzano in volo sul green screen.
La nuova opera di Paul Schrader compie una operazione inversa a quella del suo scorso Cane Mangia Cane, dove ogni immagine era così carica da implodere e nel quale la narrazione era percorsa da una frenesia quasi palpabile, usando invece la “noia” come mezzo per raggiungere il divino. Le tre fasi che compongono il film sono quelle classiche del cinema di Ozu, in cui l’ordinario subisce una scissione che lo rompe per arrivare alla fine ad una visione immobile con la quale superare la divisione senza però risolverla. Come nel cinema del giapponese o ancora in quello di Dreyer, la composizione delle immagini è rigorosa e regolare la loro successione. Se la narrazione procede per “semi immagini”, quelle di cui parlava proprio Bresson, è chiaro che saranno le scene che annunciano gli snodi principali le uniche ad avere un valore di per sé, senza inserirsi per forza in una sequenza più ampia.
Quello di Schrader è un film sull’accumulazione di emozioni e dolori che prima o poi si riverseranno sul personaggio principale come una valanga impossibile da fermare, alla quale associa un processo di scarnificazione che spoglia man mano le immagini sino ad inquadrare l’essenziale. La violenza degli uomini sulla loro casa comune (ovvero il mondo) diverrà prima lacerazione del corpo (che è la casa dell’anima) e poi disgregazione, di per sé irreversibile, del mezzo filmico. La sua fine improvvisa con una immagine che cessa di rendersi visibile in maniera brusca. Non c’è quel “mandala” che Schrader indicava nel suo libro come una delle conclusioni possibili per il cinema che fugge dalla narrazione canonica (l’immagine fissa che induce ad una riflessione) perché alla fine non rimane quasi nulla da osservare e da analizzare. Anche le immagini esauriscono il loro ruolo e allora il processo di decodifica non deve avvenire più fuori da sé, non su quello che vediamo ma su quello che siamo.
Schrader cerca di superare il dualismo di André Bazin, coniugando il desiderio di usare il proprio mezzo espressivo per duplicare il mondo che già conosciamo ed il desiderio di creare un simbolo ideale che non ricalchi il modello, ma lo includa in qualcosa di nuovo e di diverso. Il cinema di Schrader cerca quindi un difficile equilibro fra ciò che definiamo umano e personale, ovvero ogni cosa in grado di farci riconoscere nei personaggi che vediamo, ed il freddo formalismo di una messa in scena che cerca invece di rendere bidimensionale una vicenda che é così profonda da farsi abisso. Quella di Schrader è un’opera che si rifà alla raffigurazione sacra, si sviluppa nelle due dimensioni e diviene icona, immagine bressoniana (ancora lui) che ha il suo senso nella rarefazione. “Tout est grâce”, come nel Journal d’un curé de campagne.