Estate 1993, un film che elabora un dramma lasciandolo sullo sfondo
C’è una forza invisibile nelle immagini e nelle scene del film d’esordio di Carla Simòn, che nel nome richiama in maniera specifica un anno cruciale della sua infanzia, Estate 1993, quando la madre muore a causa di complicazioni per l’Aids e lei deve inserirsi in una nuova famiglia, eppure sembra riprenderlo senza enfasi, come se quei mesi così caldi del 1993 non fossero poi così diversi da quelli degli anni prima e da quelli che ancora devono venire. C’è quindi un dramma enorme sullo sfondo del film che non emerge mai come angoscia, perché chi dovrebbe provare quel senso di dolore è così piccolo da non riuscire ad elaborarlo in maniera razionale. È un cinema che parla pochissimo pur dicendo ciò che deve dire senza lasciare nulla.
Così ogni azione della piccola Frida, anche la più minuscola, ha un peso maggiore di quello che avrebbe in una condizione diversa perché chi guarda è in grado di comprendere ciò che la bambina ancora ignora e quindi di ascrivere ad ogni sua mossa un senso che magari non ha. La Simòn posiziona la sua macchina da presa a livello dei suoi piccoli comprimari: anche quando i bambini sono in scena e la regia non sceglie soluzioni in pov, sembra comunque di vedere ogni cosa dai loro occhi. La cinepresa non si alza quasi mai per riprendere i “grandi”, ma lascia che siano loro ad abbassarsi (per parlare con i loro figli, per pulire loro il viso sporco di cibo o per accarezzarli) e a comparire nel campo visivo. Se nelle scene iniziali Frida è ripresa quasi sempre da sola, man mano che il film proseguirà sempre più persone cominceranno ad affacciarsi sullo schermo.
Ma nella narrazione semplice solo in apparenza del film, Carla Simòn passa con grazia da sequenze in cui emerge una diffidenza nemica e quasi minacciosa, che ricorda quella che subiva Xavier Dolan in Tom à la ferme, ai giochi in campagna per cui passa l’elaborazione di una scomparsa e che scandiscono le conviviali Ore d’estate nella villa della nuova famiglia (ma a differenza che nel capolavoro di Assayas qui non c’è nulla da conservare e quasi nulla da ricordare). Anzi, se la famiglia francese del film del 2007 si riuniva per decidere su cosa fare dei mobili e della collezione della madre scomparsa (averi e ricchezze passavano per il mezzo filmico e divenivano così condivisi, fra i personaggi e con il pubblico), il film della Simòn si apre con gli zii di Frida che chiudono il ricordo di sua madre in pacchi ed imballaggi. Come se ci fosse urgenza di ricominciare e nessun bisogno di fermarsi nel dispiacere. Ma invece proprio come nel film di Assayas, che racchiudeva nella sua narrazione circolare numerose opere della sua filmografia, così le prime produzioni della giovane spagnola emergono con forza nel suo lungo: la donna che soffre di nanismo de Las Pequeñas Cosas, il fenomeno dell’Aids, di cui già parlava uno dei suoi primi doc, i bambini che scoprono cosa vuol dire morire come Sophia ed Oliver nel suo lavoro per la London Film School.
Sorprende come la giovane spagnola riesca a narrare un cambio così radicale per qualsiasi bambino, in grado di creare subbuglio, confusione e disordine in un periodo già difficile come quello dell’infanzia, solo soffermandosi su brevi e marginali scompigli (una fuga improvvisa, un braccio che si rompe) che si possono sedare con poco. Il grande sforzo della Simòn risiede nel voler esprimere con il suo cinema ciò che i suoi personaggi non possono (la bambina per ragioni anagrafiche, i grandi per non gravare ancora di più sulla già difficile condizione della piccola).
E quei mesi del 1993, così irriconoscibili per la maniera inusuale della Simòn di usare scenografie e decorazioni per nascondere (e non invece per evidenziare) quelli che possono essere gli indizi visivi sull’anno in cui si svolge la vicenda, scorrono via come se non ci fosse nulla di speciale nei giorni caldi che vive Frida. Le lacrime arriveranno in scena solo nella meravigliosa conclusione. Non quelle che si versano dopo che è successo qualcosa di spiacevole, ma quelle che bagnano gli occhi senza una ragione visibile. Eppure la ragione c’è. Frida forse non la conosce ancora. Ma noi sì.