Emilia Pérez di Audiard è il primo colpo di fulmine di Cannes 77
Emilia Pérez è il punto finale di quella transizione di genere che Jacques Audiard, famoso per le sue storie cupe, durissime e maschili (anche se di mascolinità vacillante, fin dai tempi di Regarde les hommes tomber, nel 1994), ha operato sul suo cinema negli ultimi anni. Prima scorrazzando allegramente nell’America del diciannovesimo secolo in compagnia dei suoi fratelli Sisters, personaggi già dal loro cognome emblematici del tentativo di parodiare e disinnescare il suo stesso cinema e ovviamente un rigido canone di virilità, e poi con il successivo Les Olympiades. Da sempre affascinato dal machisimo e dalla potenza maschile (Un profeta, Dheepan, Tutti i battiti del mio cuore), in quel caso aveva mosso un secondo, decisivo, passo verso nuovi territori, scegliendo di scrivere il film assieme a due dei più limpidi talenti femminili del cinema francese di oggi: Léa Mysius (Roubaix, une lumière) e Céline Sciamma (Ritratto di una donna in fiamme). Raccontando i nuovi codici dell’amore digitale, si tentava la definitiva archiviazione del cinema maschio: ingentilito e ringiovanito, oltre che più variegato nelle lingue e nelle provenienze etniche dei suoi protagonisti. Fluido, tra quei generi (cinema e non solo) prima mai presi in considerazione dal regista. Adesso, questo Emilia Pérez, raccontando la vicenda di un signore della droga messicano che decide di cambiare sesso e diventare donna, è la rappresentazione plastica (letteralmente) del cambiamento avvenuto progressivamente negli anni: cinema d’azione potenzialmente spietato, quello che parla di desaparecidos e cartelli del narcotraffico, trasformato in una commedia musicale. L’operazione, cinematograficamente parlando, è però serissima. La scelta del musical non è solo uno stratagemma ironico, di contrapposizione tra l’oggetto della narrazione e il suo tono, ma una direzione stilistica perseguita con grande rigore, coinvolgendo anche questa volta i migliori talenti (molto dei quali femminili e queer, senza alcuna logica di bilanciamento e quote, ma di riconoscimento della qualità) per le musiche e le coreografie. La colonna sonora è composta da Clément Ducol, ma i i testi sono stati scritti originariamente in francese (e poi tradotti) dalla cantante Camille, mentre la coreografia è stata ideata da Damien Jalet e i costumi da Anthony Vaccarello (dal momento che la casa di moda Yves Saint Laurent è coproduttrice del progetto).
«Cambiare il proprio corpo vuol dire cambiare la società», spiega l’avvocata Zoe Saldana - sottopagata e frustrata professionalmente, forse anche per il colore della sua pelle - al chirurgo che deve occuparsi di questa operazione clandestina sul suo misterioso cliente. Una frase uscita dalla penna di Audiard (che stavolta rinuncia a qualsiasi co-autore, sicuro di poter finalmente padroneggiare questa materia senza svilirla) ma che potrebbe trovarsi senza imbarazzo nei saggi di pensatori come Paul B. Preciado, che da sempre teorizzano la possibilità di ribaltare la gerarchia dell’agenda politica, ponendo all’apice quelle sull’identità, indispensabili per affrontare le altre questioni: ecologiche, geopolitiche, energetiche. Cambiare la società, ma anche il cinema in cui si è dentro, cambiando il proprio sesso, questo è ciò che Emilia riesce a fare dopo aver passato la prima metà della sua esistenza a massacrare e depredare, e dedicando invece la seconda, quella da donna, a riparare agli errori commessi, fondando un’associazione a sostegno delle famiglie che non hanno più notizie dei loro cari, misteriosamente scomparsi a causa delle attività delle cosche. Questo passaggio - dalla crudeltà del maschio alla sensibilità femminile - è tanto brusco, finanche ridicolo, quanto simbolico. Quello di Audiard non è un film sul transgenderismo, ma un film sulle donne e sulla possibilità di un cinema sempre più femminile. La protagonista è definita innanzitutto in quanto donna e non in quanto donna dopo un processo di transizione. La triade di attrici (la già menzionata Zoe Saldana, ma anche Selena Gomez e l’attrice trans Karla Sofia Gascòn, tutte formidabili) rappresenta diverse declinazioni della femminilità e la possibilità di una vera comunità matriarcale. Quando ci sono gli uomini al comando di un’organizzazione, questa probabilmente sarà un’organizzazione criminale. Quando ci sono le donne, le cose cambiano e si scopre la possibilità di fare del bene. Il cambio del sesso al vertice conduce spesso a risultati positivi, sembra suggerire Audiard.
Il film è fondato infatti sull’idea che è solo attraverso la decostruzione di ogni valore associato al concetto di mascolinità che si può davvero perseguire un progresso morale. E non ci si aspettava, da chi ha diretto Un profeta, un musical che fin dalla prima sequenza danzante cita esplicitamente Golden Eighties di Chantal Akerman (1986). L’ispirazione di Audiard, in realtà, è un racconto di Boris Razón, dove si esplicitava una relazione dialettica tra il cambiamento di sesso e la vita interconnessa dell’era online. Razón faceva andare di pari passo l’ampliamento delle possibilità digitali e i progressi della tecnologia medica, che oggi permettono di proiettarci al di fuori di noi stessi, fuori dalle nostre prigioni, che si tratti dei nostri corpi o delle nostre vite. «Viviamo in società sempre più controllate e monitorate, e questi cambiamenti, come il cambio di sesso, sono l’unico modo per uscirne. Dietro questo desiderio di cambiare sesso c’è il desiderio di sfuggire al controllo permanente di ciò che accade», afferma Razón, e non è forse un caso che Emilia Pérez arrivi, nella filmografia di Audiard, dopo una storia di relazioni amorose ai tempi delle piattaforme di incontri e dei nuovi lavori legati al sesso. A differenza che nel racconto originale, però, in questo caso la scelta del cambio di sesso non è imposta da fattori contingenti (la necessità di cambiare i propri connotati per sfuggire alla legge) ma da un desiderio personale. E qui, ovviamente, sta tutta la differenza e anche l’intelligenza di un regista che, similmente, non ha adattato il suo cinema a sensibilità più contemporanee per obbedire a fantomatiche “ideologie woke”, ma per rimanere ancora rilevante e poter dire qualcosa di significativo sulle questioni del presente.