C’era una volta a... Hollywood è un film altalenante ma dalla tenerezza inedita
C’era una Volta a… Hollywood, nono lungometraggio di Quentin Tarantino (anzi, 9 e ½, come lo definisce lui), è un film autosufficiente, in grado di emanciparsi dalla trama e dall’intreccio. Tarantino relega l’azione a poche scene nel finale, allunga e dilata i dialoghi in maniera ancora più estrema di quanto non accadesse nei suoi primi lavori, ma soprattutto sembra provare un vero e proprio piacere nell’indugiare sul superfluo, nel dare grande rilevanza ad interazioni tra i personaggi che in altri film non avrebbero alcun valore (come da sempre fa ad esempio Richard Linklater). C’era una Volta a… Hollywood è infatti un period movie in cui la ricostruzione (a)storica degli ambienti, dei vestiti e persino degli arredamenti vale più di qualsiasi macchinazione narrativa e dalla cui cura traspare un’ossessione ed un amore per gli anni messi in scena (i sixties del cinema americano) davvero commovente, fino quasi a ridurre la narrazione ad orpello facilmente rimovibile dall’equazione senza alterare il risultato.
Quello di Quentin Tarantino è un film sul potere salvifico del cinema, un prisma che riflette immagini provenienti da schermi grandi (quello su cui Sharon Tate si riguarda in The Wrecking Crew) e piccoli (quelli su cui la Famiglia Manson passa le giornate nello Spahn Ranch). Una continua sovrapposizione di narrazioni che sono la testimonianza di un mondo che non può esistere se non nella finzione cinematografica e televisiva, che nel mezzo filmico trova il suo unico strumento di decodifica. Persino le emozioni non esisterebbero se non fossero filtrate dal prodotto audiovisivo (le relazioni tra i protagonisti sono mediate dal cinema ed esistono solo grazie ad esso). C’era una Volta a… Hollywood è un film di finzione ambientato ai margini del cinema vero. Leonardo DiCaprio (controfigura della sua stessa controfigura) è il protagonista di b-movie fasulli prodotti nel contesto di una industria cinematografica che Tarantino cerca di rendere reale. È un film di comparse eccellenti ma davvero interessato agli invisibili che lavorano nel cinema e permettono a quella enorme macchina di funzionare. Rick Dalton (la star) fa di tutto per imitare Cliff Booth (il lavoratore) nella vita reale, quando invece Cliff Booth fa di tutto per imitare Rick Dalton nella finzione cinematografica. Personaggi inventati che agiscono in un mondo di nomi e cognomi reali.
Tarantino riflette in maniera unica su quella interdipendenza tra cinema di serie B e cinema d’autore (di serie A) che ha tenuto in piedi il sistema hollywoodiano (e non solo) per tantissimi anni. Decide di far trasferire Sharon Tate (attrice da cinema di serie A e moglie di un “auteur” come Roman Polanski) nella villa accanto a quella di Rick Dalton (attore invece di un cinema low budget e di massa) e spiega attraverso le immagini come quel cinema “alto” non sarebbe potuto esistere senza quello degli horror, dei film di kung fu e dei western prodotti in serie. Film, questi ultimi, che avevano costi di produzione molto bassi ma rendimenti economici molto alti e di fatto consentivano ai registi (e ai produttori) di fare film più ambiziosi ma dallo scarso appeal commerciale. Questa funzione di “salvataggio” che il cinema di serie B svolgeva nei confronti di quello di serie A viene resa benissimo nell’allegorica sequenza finale, quando a Dalton (il salvatore, appunto) vengono finalmente aperti i cancelli di un cinema che fino a quel momento aveva potuto soltanto “spiare”.
Per Tarantino ogni cosa è “sacrificabile” nel nome del cinema, persino il film stesso. L’appagamento che prova nel mettere in scena quegli anni attraverso insegne, loghi e locandine, è tale da farlo disinteressare alla progressione della sua narrazione. C’era una Volta a… Hollywood gioca sul non detto (e su quello che non viene mostrato), suggerisce episodi torbidi nel passato di alcuni personaggi, ma poi si “rifiuta” di approfondire elementi narrativi che sarebbero in grado di far cambiare radicalmente il giudizio (almeno quello morale) sul film (e sui personaggi) e di capovolgere la visione affettuosa che il film ha di quegli anni. Cosa è successo su quella barca? “Poor trigger discipline” come quella di Vincent Vega in Pulp Fiction o fattaccio come quello ne Il coltello nell’acqua (esordio alla regia di Polanski, per l’appunto)? Tarantino non “macchia” la reputazione dei suoi personaggi e spinge la sua fede nel cinema ai limiti del fanatismo (che incombe su tutto il film).
C’era una Volta a… Hollywood è un film scostante, che alterna sequenze sofisticate, anche molto lunghe, in grado di esistere al di fuori della trama, a sketch da Saturday Night Live (che spreco vedere il personaggio di Bruce Lee ridotto a macchietta, utilizzato al servizio di Brad Pitt ma senza neanche la voglia di creare una buona coreografia per il combattimento). Ma è allo stesso tempo un film attraversato da una tenerezza inedita per Quentin Tarantino. Al netto dell’amore esibito per il mezzo filmico, per quelle storielle da quattro soldi sempre in grado però di strappare una lacrima (come accade a DiCaprio davanti alla bambina sul set del suo film), c’è uno sguardo profondamente compassionevole nei confronti dei personaggi. Pur accusando l’affaticamento da divertissement cinefilo, C’era una Volta a… Hollywood svela una premura insospettabile. Il modo in cui Tarantino riprende Sharon Tate è sufficiente a comunicare un senso di profonda vicinanza a quella ragazza, una dolcezza che arriva a restituirle una giovinezza negata.
È lei a sintetizzare con pochissimo tutto il cinema tarantiniano. Seduta in una sala cinematografica, comoda sullo schienale e con i piedi nudi poggiati sulla poltrona davanti a lei, che si (ri)guarda, provando piacere nel farlo. Alle sue spalle, un proiettore. La gioia che si prova nel guardare, nel guardarsi, nell’essere guardati. Avendo dietro di sé il cinema. Quello su cui Tarantino ha sempre basato i suoi film.