Cannes 76 | Monster, il cinema di Kore’eda diventa metodo
Il nuovo film di Hirokazu Kore’eda (che generalmente scrive da sé le opere che dirige) è inevitabilmente segnato dalla collaborazione con lo sceneggiatore televisivo Sakamoto Yuji, che co-firma il copione. Non è una decisione di poco conto, quella di lavorare ad una sceneggiatura di cui non si è effettivamente autori unici e principali, ma il vero fulcro di questa ennesima sofisticatissima operazione tra realtà e cinema che Kore’eda compie nel tentativo di fornire allo spettatore gli strumenti utili per applicare in autonomia il principio morale che da sempre guida il suo cinema a qualunque personaggio e a qualunque narrazione (anche quelle, quindi, che non sono ideate da lui). In Monster ritroviamo tutti i temi cari al regista (l’infanzia, la decostruzione del nucleo famigliare tipico che si ricompone liberamente aldilà dei vincoli di sangue, l’abbandono, il crimine) azionati da un meccanismo narrativo che richiama quello di Rashomon, ma che è proprio anche della moderna serialità televisiva, in cui i medesimi fatti vengono raccontati più volte da punti di vista differenti. Un modello che impone un “eccesso” di scrittura rispetto ai precedenti film del regista, una maggiore aderenza alle regole della finzione e meno a quelle del quotidiano.
Seguendo ogni volta un personaggio diverso non cambierà però soltanto quello che sappiamo sui fatti raccontati, ma il modo in cui vediamo e giudichiamo gli altri personaggi, sempre attraverso le ansie e le convinzioni di chi, in quel momento, conduce la narrazione. Così inizialmente, quando seguiamo la tutrice di un bambino, ci sembra che la storia che Kore’eda voglia raccontare sia quella di un ragazzo con problemi mentali, maltrattato da un insegnante in una scuola omertosa che lo copre e avalla il suo comportamento malato e violento. Ci sembra addirittura che il bambino abbia cominciato a praticare autolesionismo e che quindi ci sia il rischio concreto che possa decidere di togliersi la vita da un momento all’altro. Poco dopo, capiremo che quella non è la realtà, ma solo la paura della donna che lo accudisce, che vive nel terrore che il ragazzo possa farsi del male sotto la sua tutela. Tutto cambierà più volte lungo il film e ad ogni nuova svolta il “mostro” sembrerà qualcun altro, non solo grazie alla scrittura ma attraverso la recitazione, la color correction e la colonna sonora di Ryuichi Sakamoto, ogni volta orientata diversamente in modi così sottili da non accorgersene neanche. Il tono, all’inizio tesissimo come quello di un thriller di Farhadi, diventerà quasi fiabesco, fino a rifugiarsi in un luogo segreto, nella natura e lontano dal mondo degli adulti, dove i due protagonisti possono essere davvero liberi di essere ciò che vogliono. A quel punto, non ci saranno più “colpevoli” da cercare e da condannare, ma soltanto da correre sul terreno bagnato dopo la pioggia fino a che non finisce il fiato, finalmente padroni del proprio tempo (una sovrapposizione di ritmo e respiro che accomunerà alla fine anche i due autori, Kore’eda e Yuji, nella conciliazione di due idee di cinema che sembravano lontanissime).
C’è felicità di regia, senza fronzoli, diretta dalla dualità prospettica, e c’è come sempre la facilità di sentire, di aderire senza costrizione alcuna ai sentimenti dei personaggi che osserviamo, perché il triangolo tra madre, figlio e insegnante si apre verso la possibilità di un altro cambio di prospettiva, se non proprio di un’altra storia e di un altro film. Stavolta Kore’eda, che da sempre gioca con il tempo del cinema per restituire, attraverso il montaggio, le insoddisfazioni e le lacune di comprensione che inevitabilmente persistono nonostante i tentativi di spiegazione, sembra interrompere la giostra prima del dovuto, lasciando lo spettatore nella convinzione che, se avesse potuto osservare ancora una volta la storia dal punto di vista di quelli che gli erano sembrati i personaggi peggiori, quelli più cattivi o meschini, avrebbe capito anche loro.
Quello di Monster, ancora una volta, è un cinema che disattende le apparenze, che chiede uno sforzo in più di indagine, antropologica e filosofica, finendo per assumere, senza presunzione o forzatura, una valenza metatestuale, in cui l’approccio dello spettatore al film è lo stesso che Kore’eda chiede di utilizzare nel mondo di tutti i giorni, per vivere meglio con gli altri, tra gli altri, per gli altri. E con la stessa naturalezza, dopo averci fatto affezionare a criminali (Un affare di famiglia), assassini e trafficanti di bambini (Le buone stelle), si arriverà a toccare un altro argomento ancora tabù al cinema, senza alcuna necessità di “problematizzarlo”, ma presentandolo come dato già acquisito da accettare con tranquillità.