Bumblebee, l'approccio da animatore di Knight sostituisce il titanismo di Bay
Il primo spin-off della saga cinematografica dei Transformers chiarisce fin dalla prima sequenza i rapporti di scala: Bumblebee, il robot protagonista del film, sembra minuscolo al fianco dei suoi simili più corazzati e così il film che lo riguarda deve per forza di cose narrare una storia molto più piccola di quelle trasposte al cinema attraverso il titanismo di Michael Bay. Il prequel di Travis Knight si apre infatti con una sequenza d’azione (una delle due presenti nel film) che è anche una dichiarazione di intenti. Come avviene nella stop-motion, ogni movimento dei personaggi è immediatamente leggibile, le loro traiettorie facilmente seguibili ed ogni gesto dei Transformers sembra avere una pesantezza dovuta alla loro consistenza fisica (in realtà inesistente perché digitali) che li rallenta e che rende impossibile replicare lo spettacolo futurista di Bay, nel quale persino l’azione diveniva fluida ed era montata per ellissi, mostrando l’inizio della stessa e poi subito le sue conseguenze.
Nonostante il suo film sia immerso in una atmosfera anni ’80 spesso smaccatamente nostalgica, Travis Knight sembra più rifarsi ad un certo cinema di animazione che ai cult della Amblin di quegli anni. Non solo Bumblembee è un’arma ma non vuole esserlo, come Il Gigante di Ferro (classico firmato da un altro genio dell’animazione, Brad Bird, che come Knight ha sperimentato il cinema live-action), ma si nasconde sempre per mostrarsi solo a chi lo ama davvero, come farebbe Il Drago Invisibile della Disney (che invisibile lo era effettivamente essendo in cgi, assenza di cui gli attori devono tenere conto). L’esperienza di Knight con la Laika è quindi essenziale per restituire su schermo la presenza tattile di qualcosa che non c’è: un lavoro minuzioso che prevede lo studio di ogni movimento sullo storyboard per coreografare le sequenze con attori e personaggi digitali.
La scelta di Hailee Steinfeld come giovane protagonista si rivela vicente e dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, l’occhio attento di quei fratelli Coen che nel 2010 la scelsero (da esordiente) nel loro remake de Il Grinta, intravedendo la possibilità di utilizzare il suo talento per un ruolo femminile ben diverso da quello interpretato da Kim Darby nel 1969. Charlie Watson nel film di Travis Knight ricorda quindi da vicino la Mattie Ross coeniana: una ragazza sveglia e ostinata, regina della negoziazione dialettica e pronta a misurarsi con la realtà per affermare la propria etica (che in Bumblebee, come ne Il Grinta, è contraria a quella comune). Ma nella prova della Steinfeld, il cui volto basterebbe a segnare la sua distanza dalla banalità della rappresentazione standard dell’adolescenza al cinema, sembra di rivedere anche la Nadine di The Edge of Seventeen. Non solo Charlie non sopporta chi agisce e pensa in una determinata maniera, ma dimostra nel corso del film di appartenere ad un’altra tipologia umana. Non si sente semplicemente diversa dai suoi coetanei e dai suoi attuali genitori, ma addirittura cerca questa sua diversità ed è lieta di rivendicarla.
Bumblebee comunica attraverso una vecchia autoradio e le sue parole sono quelle degli Smiths, dei Simple Minds, di James Brown. Una “supercar” che è un contenitore postmoderno di cultura popolare, che ha a che fare più con le Talking Heads di David Byrne che con le talking cars di David Hasselhoff.