Black Panther è uno dei film Marvel più politici ma non uno dei migliori

Sembra che il cinema di supereroi sia sempre meno interessato a narrare le origini dei propri protagonisti. Se persino Spider-Man, che è il personaggio che più di altri trova la sua forza nella somiglianza con il proprio pubblico giovanile, non viene più mostrato come il ragazzo che deve soffrire per comprendere le proprie responsabilità ma come un Avenger già designato da Tony Stark, così Doctor Strange non è altro che il soggetto cinematografico di una origin story appena abbozzata e dai caratteri generici. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se anche questo primo lungometraggio su Pantera Nera comincia in medias res e ci mostra T’challa nel momento della sua incoronazione a re, ovvero quando non è già più un uomo come gli altri ma una figura eccezionale, superiore ai suoi comprimari per status ed abilità.

Questo perché il vero fulcro di Black Panther non è lo sviluppo dei propri personaggi ma il suo messaggio politico: una civiltà nascosta nel cuore del continente africano che è avanti anni luce per tecnologie ed armi a quella occidentale, che potrebbe in qualsiasi momento usare la propria potenza di fuoco per rovesciare i governi dei bianchi, ma che nonostante ciò decide di vivere in pace. In questo senso i due “villains” del cinecomic targato Ryan Coogler sono tra i più interessanti della scialba galleria Marvel proprio per la posizione che assumono nei confronti della materia politica della storia. Il Klaw di Andy Serkis è un folle mercenario che ruba il vibranio del Wakanda per arricchirsi, ma che in nessun modo vuole interferire con il suo ruolo nello scacchiere geo-politico mondiale (pur essendo uno dei pochissimi a conoscere la verità sulla loro ricchezza), mentre il Killmonger di Michael B. Jordan è un soldato che nelle sue missioni mediorientali ha appreso dagli americani le strategie per prendere il controllo dei Paesi in crisi e ora vuole usare questa sua conoscenza contro di loro. Due antagonisti mossi da scopi divergenti, uno estraneo a qualsiasi ideologia ed un altro che proprio in nome della sua visione colonizzatrice (opposta a quella che generalmente intendiamo) sfida il governo giudizioso di T’challa.

Eppure le potenzialità di una trama così complessa sembrano soffocare negli schemi rigidi del cinecomic più tradizionale, a cui Black Panther aderisce con difficoltà anche a causa della poca dimestichezza di Coogler nel dirigere le scene di azione, che sono lunghe e numerose ma mai in grado di aggiungere qualcosa al film (come invece succedeva in Doctor Strange, dove le intuizioni visive sopperivano alle carenze di sceneggiatura). Pur possedendo un tono decisamente serioso per gli standard Marvel, Black Panther sembra non avere mai la consapevolezza necessaria per usare il proprio contesto unico e gli spunti sociali intrinseci alla sua storia per dar forma ad un cinecomic dalla personalità forte e ben distinguibile. Se i capitoli più originali del MCU sono stati proprio quelli dedicati agli eroi di seconda fascia, da Ant-Man ai Guardiani della Galassia, la stessa cosa non si può dire di questa nuova trasposizione per il grande schermo.

Così il Wakanda non sembra mai davvero vivo e pulsante come dovrebbe essere, perché Black Panther sceglie di mostrare solo gli scontri di potere e mai le conseguenze degli stessi sulla popolazione di uno Stato che sembra esistere solo nelle parole dei protagonisti e mai sullo schermo. Se la stessa passione che la sceneggiatura dedica alla descrizione dei rituali e delle tradizioni dei wakandiani fosse stata spesa per rendere il Wakanda un luogo cinematografico davvero credibile ed efficace, forse il giudizio su questo nuovo ed ambizioso cinecomic Marvel sarebbe diverso.