Benvenuti a Marwen è il primo film “mo-cap” di Zemeckis che al realismo preferisce la finzione
Già con Polar Express (2004) e poi con Beowulf (2007) era chiaro che ciò che interessava a Robert Zemeckis delle tecnologie moderne di computer grafica e motion capture fosse la possibilità di utilizzarle non per “astrarre” il reale (come fanno i cartoni animati digitalmente) ma per inseguire il realismo: fare in modo che un film animato somigliasse il più possibile ad uno fatto con attori in carne e ossa. Per far questo Zemeckis si è servito di sceneggiature che partissero da canovacci classici (o addirittura letterari) per filtrarli attraverso lo sguardo della narrazione cinematografica contemporanea. A vederlo oggi, Beowulf, nonostante gli effetti ormai superati e anacronistici, ci appare come una anticipazione di ciò che poi è effettivamente accaduto anni dopo con Il Trono di Spade: una narrazione adulta e cupa modellata attorno ad una semplice storia che parla della sete di dominio degli uomini sugli altri. Questo percorso di “sperimentazione” visiva ha trovato nel 2009 il suo culmine in A Christmas Carol, perfetto esempio di un cinema che non era cinema di animazione e neanche cinema dal vero, bensì una fusione degli elementi più interessanti di queste due forme filmiche. Polar Express, Beowulf e a A Christmas Carol erano film con “attori finti” in ambientazioni finte e non (come quasi sempre avviene) film con attori veri in ambientazioni finte. Eppure proprio la precisione millimetrica con cui venivano catturate le movenze dei diversi attori permetteva di “ingannare” lo spettatore, facendogli credere che la finzione portata alle sue estreme conseguenze potesse essere paragonata alla realtà.
Benvenuti a Marwen comincia, seguendo questo principio, con una scena di guerra realizzata talmente bene utilizzando il digitale da essere praticamente indistinguibile da quella di un normale film bellico. Solo quando il protagonista scoprirà le giunture che ne compongo il corpo, capiremo che quello che stiamo guardando non è il vero Mark, bensì la bambola che lui ha creato per sé e che ha inserito in un mondo di finzione da lui ideato per fuggire dalla sua quotidianità. Una seconda realtà che non sostituisce la prima, ma si affianca ad essa. Così Zemeckis si trova per la prima volta a dover “esplicitare” la natura artificiosa del proprio cinema, rendendo visibile su schermo la differenza che passa fra la vita del protagonista nel paese (finto) di Marwen e quella nel paese (vero) di Kingston. Per far questo Zemeckis rende volutamente finti i movimenti delle sue bambole, non cerca il realismo nelle loro azioni (come sempre avveniva nei suoi precedenti film) ma invece rimarca il fatto che questi pupazzi non siano delle vere persone. Il regista utilizza il digitale simulando la stop-motion, rinunciando quindi alla fluidità che la cgi può offrire e al fotorealismo che è possibile raggiungere con le tecnologie più innovative.
Zemeckis coglie i meccanismi di quel tipo di animazione a passo uno, che si basa sul movimento dei propri pupazzi tanto quanto sulla loro inazione e sul loro immobilismo. In questo senso Steve Carell si rivela perfetto, essendo un attore che da sempre utilizza l’immobilismo della propria faccia e del proprio corpo per comunicare qualcosa e per caratterizzare i suoi personaggi, sia nei ruoli comici (la fissità da manichino di Brick in Anchorman) che in quelli drammatici (le lunghe occhiate di du Pont in Foxcatcher). Carell, pur non reggendo sempre in maniera convincente il patetismo di alcuni momenti, si dimostra in grado di dire tantissimo anche solo rimanendo fermo e i suoi movimenti sembrano irreali come quelli dei pupazzi anche nelle scene normali.
Nella trasposizione di Beowulf fatta da Gaiman ed Avary tutto ruotava attorno al sesso, ossessione nella testa di tutti i personaggi ed esplicitata nel modo in cui venivano inquadrate le donne del film. Anche in Benvenuti a Marwen la predilezione del protagonista verso le donne non sembra essere solo emotiva e sentimentale, ma comandata da pulsioni carnali e materiali. E se nella sua versione del poema sassone per il grande schermo, Zemeckis metteva in scena sequenze di nudo esplicite per un film pg-13, così il mondo nella testa di Mark sullo schermo si manifesta con una violenza esasperata. Come gli altri film “mo-cap” del regista, anche Benvenuti a Marwen sembra conservare una ambiguità di fondo che lo rende in qualche modo inquietante (fino a che punto può spingersi la morbosità di Mark e cosa c’è dietro alla virilità esasperata della rappresentazione che lui immagina di se stesso?).
Il nuovo film di Zemeckis, pur rivelando dei problemi sul finale a causa della reiterazione di alcune situazioni e di un paio di soluzioni narrative dozzinali, è una celebrazione della sua carriera che (quando non scade nell’autoindulgenza) riesce comunque a sorprendere. Il protagonista costruisce il proprio paesino in miniatura al servizio dei personaggi che lo popolano e della sua fittizia narrazione, così come il regista americano ha sempre fatto con il suo cinema, in cui tutto (anche gli ambienti) si modella e si plasma in funzione dei protagonisti.
La sceneggiatura sorvola su alcune delle questioni che invece stavano a cuore al documentario del 2010 (Marwencol di Jeff Malmberg) che per primo ha raccontato la storia di Hogancamp, la cui terapia “creativa” nasceva anche come reazione all’inefficienza del sistema sanitario americano. Ma è ad un altro suo film che sembra guardare Zemeckis. Come il pilota Whip Whitaker interpretato da Denzel Washington in Flight, infatti, Mark Hogancamp cerca di riprendersi da un evento traumatico rimettendo assieme i pezzi della sua esistenza. Il protagonista del film crea un mondo in cui poter, apparentemente, dominare e controllare le proprie dipendenze e così risalire dai propri abissi personali. Steve Carell racconta a se stesso delle storie per uscire da una crisi. Proprio come il regista che lo dirige.