Astolfo | il cinema di Gianni Di Gregorio trova la grazia nel suo dimesso ciondolare
Il nuovo film di Gianni Di Gregorio si inserisce ancora una volta nel solco dell’epica, tipica del cinema italiano, dei teneri sconfitti, di quegli uomini un po’ dimessi ma sempre pronti alla battuta, che vivono di rimessa e non hanno mai lo slancio necessario a compiere le minuscole rivoluzioni che pure vorrebbero mettere in atto per modificare la propria stagnante quotidianità. Nonostante ciò, questo Astolfo, pur presentando lo stile riconoscibilissimo di tutto il cinema di Di Gregorio, quel tono molle e lieve e quell’andamento “trascinato”, rinuncia, senza dare troppo nell’occhio, ad alcuni dei punti fermi su cui poggiavano le storie precedenti. L’attore e regista romano, protagonista come sempre, recita con le camminate, con le giacche piegate sul braccio, inizialmente stimolato da un coetaneo più coriaceo e vitale di lui, eppure stavolta il suo personaggio non è più un pensionato terrorizzato dalla possibilità di uscire da quel “quadrilatero in cui è nata Roma”, tra l’isola Tiberina e Trastevere. Astolfo (che è appunto il nome del protagonista) non è così risoluto da lasciare la Capitale per sua decisione autonoma, ma la fuga dalla città, se pur forzata dagli eventi e da uno sfratto repentino, non rappresenta per lui un trauma da elaborare. Non c’è alcuna reticenza al trasferimento, ma anzi una flebile speranza di poter trovare una rinnovata tranquillità nel paesello in cui è cresciuto da ragazzo e in una vecchia casa ereditata dalla sua famiglia (simbolo di un passato glorioso che il tempo ha ridotto ad un rudere che cade a pezzi). Come questo film sia meno trasteverino, non più cadenzato dal ritmo dei passi sui sampietrini, lo si capisce immediatamente dalla prima inquadratura, quando sullo sfondo si staglia il Gasometro, ad indicare un progressivo allontanamento dal centro storico capitolino che si farà poi definitivo qualche minuto dopo.
I personaggi maschili non vivono più in balia di anzianissime madri che impongono commissioni e giudicano le loro azioni, ma sono le mamme, ormai diventate nonne, ad essere tenute in ostaggio da figli che rivelano ben presto la propria avidità. Il termine “giovane” viene utilizzato quasi come uno spauracchio, un aggettivo che incute timore e sospetto. Il “nuovo” parroco e il “nuovo” sindaco non sono migliori di quelli che un tempo aveva conosciuto (e disprezzato) il protagonista. Anzi, sono due manigoldi che non si fanno scrupoli ad abusare del proprio potere, molto più disinibiti nella gestione truffaldina della cosa pubblica e dei beni altrui. E degli unici due Carabinieri presenti nel paese, è quello giovane il più fiscale e severo, incapace di giudicare con l’occhio della morale ciò che è giusto al di là della legge (mentre l’altro, quello più attempato, sotto sotto comprende le motivazioni di chi si trova ad ammonire). L’unico ragazzo connotato positivamente è, ancora una volta, un “Gianni in divenire”, come il fidanzato della figlia in Gianni e le donne, un giovane che non ha una casa, non ha un lavoro e non ha alcuna fretta di trovare l’una o l’altro. La solidarietà tra generazioni passa quindi attraverso la condivisione di un comune atteggiamento nei confronti della vita e dalla disponibilità reciproca ad aiutarsi vicendevolmente (se tu ripari un vecchio fornello, c’è chi poi lo userà per cucinare per te).
Come sempre avviene nel cinema di Di Gregorio, tutti i personaggi secondari e i comprimari si definiscono interagendo con il protagonista e le loro personalità vengono scolpite dalle continue interazioni con lui. Ed è così che, a poco a poco, Astolfo ospiterà nel palazzo un tempo abbandonato tanti paesani che troveranno in quel luogo un ambiente informale in cui chiacchierare e passare le giornate. Ovviamente, anche in questo caso, non sarà mai lui ad invitarli esplicitamente a restare, ma sarà sempre la sua dolce indolenza a suggerire una non-opposizione rispetto alla possibilità di co-abitare con loro. Sarà un personaggio femminile, quello di Stefania Sandrelli, ad avere la determinazione che manca al suo spasimante, scegliendo di fare di testa propria nonostante il figlio e la moglie di lui facciano di tutto, egoisticamente e moralisticamente, per dissuaderla dal proseguire una storia d’amore che giudicano ambigua. Una storia d’amore in cui loro leggono il tentativo di un pensionato squattrinato di mettere le mani sull’eredità della madre (e quindi anche la loro), ma che in realtà è più banalmente il tentativo di un uomo incapace di ordire macchinazioni di trovare una persona con cui passare il tanto tempo libero, con cui cominciare una relazione dalla serenità senile, senza grandi progetti per il futuro se non quelli di organizzare qualche scampagnata nei fine settimana. Tutto è semplice: «basta guardarsi» per capirlo (o ascoltare, quando in un momento raffinatissimo del film il sound-design si fa improvvisamente più complesso e definito).
Astolfo non ha più il fisico adatto a sostenere il conflitto e lo scontro. È un personaggio che mal tollera l’autorità (politica ed ecclesiastica), ma che non ha mai la forza sufficiente per ribellarsi agli abusi subiti, finendo per accontentarsi della prima risposta di circostanza ricevuta (“Il sindaco non c’è”, “Provvederemo a riparare la grondaia”) e mettersi così l’anima in pace. Il suo è un fisico che ormai può sostenere solo gesti di premura e gentilezza. Per questo assume ancora più valore un epilogo che non chiude davvero alcun arco narrativo, che non trova una soluzione a tutti quei piccoli problemi che si sono aggravati nel corso degli anni (in alcuni casi, secoli!). Una conclusione in cui due corpi ormai “crivellati di slanci”, per dirla con Tiziano Scarpa, affaticati dopo tante rincorse prese e terminate sulla linea d’inizio, cercano, in una lercia e vecchissima utilitaria, una posizione comoda per volersi bene.