Cannes 75 | Armageddon Time è il film più complesso e controverso di James Gray
Dopo l’infinitamente grande di Ad Astra, in cui la ricerca di un padre che si credeva perduto spingeva il protagonista fuori dall’orbita terrestre, James Gray torna a raccontare qualcosa di estremamente piccolo, cercando in una storia inevitabilmente autobiografica (come tutto il suo cinema) l’origine di una crisi collettiva, quella dell’America all’alba degli anni Ottanta, con la presidenza Reagan che si avvicina e l’oppressione di una incombente minaccia nucleare. Come se fosse un film di Brady Corbet, l’infanzia in Armageddon Time è potenzialmente la culla di tutte le idiosincrasie, le vergogne e i malfunzionamenti che emergono anni dopo in età adulta. Eppure non c’è nulla della programmaticità, ad esempio, de L’Infanzia di un Capo, in cui le conseguenze, personali e storiche insieme, di una determinata atmosfera culturale vengono indicate senza possibilità di fraintendimento riguardo al nesso di causalità tra un avvenimento e un altro. Il film di Gray è avvolto invece da una cappa di perplessità sul futuro del suo giovane protagonista, la cui educazione casalinga è fatta di ponderati consigli tanto quanto di feroci scudisciate con la cintura, senza che nessuno si preoccupi di suggerire quale tra questi due metodi “pedagogici” sarà quello che poi effettivamente orienterà le azioni e le scelte del ragazzino quando diventerà grande.
Solo apparentemente classico e tradizionale, sfasato rispetto alle tendenze più recenti del genere coming-of-age, Armageddon Time cerca di dire tantissimo con pochi elementi collocati al posto giusto, seguendo l’irrequieto Paul muovere i primi passi nell’adolescenza, tra il desiderio di essere popolare tra gli amici, anche a costo di ricevere qualche ramanzina, e quello più ambizioso di diventare un famoso disegnatore. L’amicizia con Johnny, compagno di classe di colore che vive da solo con sua nonna malata, lo spinge però a compiere azioni che progressivamente lo isolano dai suoi genitori medio-borghesi (Anne Hathaway e Jeremy Strong), sempre meno disposti a tollerare i suoi misfatti e il suo atteggiamento indisponente. Fino al punto che la sola persona in grado di comunicare efficacemente con lui rimane suo nonno, affabile gentiluomo naturalmente incline a stemperare i toni con una battuta, pacatamente disponibile al dialogo e alla comprensione: un personaggio splendidamente cucito addosso ad Anthony Hopkins che è allo stesso tempo presenza a cui aggrapparsi e miraggio-visione costantemente in pericolo di dissolversi e svanire.
Tra Paul e Johnny si inserisce la violenza e il razzismo sistemico di una società che discrimina le minoranze, inevitabilmente colpevoli di ogni crimine e problema nella New York di quegli anni. Ma il Queens è, nel 1980, anche il cuore della sempre più ricca e influente famiglia Trump, di cui compaiono nel film sia Fred (il padre di Donald, in scena con il volto di John Diehl) che la giudice statunitense Maryanne (sorella di Donald, qui con le sembianze di Jessica Chastain). I membri della famiglia del futuro presidente degli Stati Uniti sono tra i principali finanziatori della scuola privata che Paul è costretto a frequentare contro la sua volontà. La fanciullezza del protagonista si svolge quindi in un contesto ingiusto e classista, che punta ad inculcare nella mente delle nuove generazioni l’ideologia del successo (quello raggiunto sulla pelle di chi non ce la fa), del profitto e del capitalismo de-regolamentato (che troverà in Reagan uno dei massimi testimonial).
È un’America dove l’autorevolezza si afferma attraverso la prevaricazione, in cui tutti vengono giudicati e schedati sulla base della loro estrazione sociale o del loro estratto conto. Da tutto questo Paul vorrebbe fuggire e così il suo amico Johnny, che ingenuamente cova la speranza di lavorare un giorno alla NASA. L’effettiva realizzazione del sogno comune di evasione è una domanda destinata a rimanere, almeno parzialmente, inevasa. Il giovane Paul (dai capelli rossi) corre il rischio, come tanti altri di quella generazione, di diventare con il tempo un proto-Trump. Suo nonno (ebreo) cerca di trasmettergli il rispetto e il valore della diversità, gli suggerisce di rispondere a tono a quelli che, a scuola, si permettono di insultare l’amico per il colore della sua pelle. Ma anche in questo caso i suoi consigli non si traducono in fatti tangibili e Gray non risolve mai l’indecisione sulla loro effettiva attuazione.
Paul ha un ulteriore privilegio che non è concesso al suo amico: il suo avvenire è ancora tutto da definire e solo da lui dipende la scelta di quali modelli famigliari seguire una volta diventato grande. Il destino di Johnny, invece, sembra essere già segnato, si chiude sbrigativamente come se non ci fosse nulla da aggiungere a riguardo. A lui è destinato un epilogo ampiamente prevedibile al quale il racconto si avvicina a grandi falcate, come se non fosse possibile giungere ad una conclusione diversa. Il trattamento riservato al suo personaggio, utilizzato dalla narrazione cinematografica come mezzo per raggiungere fini che non lo riguardano direttamente, è forse l’elemento maggiormente problematico di un film che si sbarazza con troppa disinvoltura di uno dei suoi comprimari. Johnny è lì, in effetti, solo per essere da esempio e monito per Paul, il suo amichetto bianco, che potrà così imparare la lezione e diventare una persona migliore. Come anticipa la canzone dei Clash, che ispira il titolo e che riecheggia più volte nel film: A lot of people won’t get no justice tonight.