PÖFF 2024 | Quiet Life, intervista ad Alexandros Avranas

Di seguito la trascrizione in italiano della conversazione con Alexandros Avranas realizzata per HOBO - A Wandering Podcast about Cinema. È possibile recuperare lepisodio completo in lingua inglese su Spotify e su Apple Podcast.

Alexandros Avranas, autore di un film cult come Miss Violence, Leone d’Argento al festival di Venezia nel 2013, torna a raccontare gli aspetti più cupi della società in cui viviamo con il nuovo Quiet Life. Stavolta il tema è quello della sindrome della rassegnazione, una condizione psicologica che colpisce prevalentemente i bambini e conduce ad uno stato di riduzione della coscienza semi-comatoso. Questa sindrome è stata riscontrata per la prima volta in Svezia negli anni ‘90, nei figli dei richiedenti asilo provenienti dai paesi dell’ex Unione Sovietica, dalla Jugoslavia e più recentemente dalla Siria.

Di questa patologia, riconosciuta solo nel 2014 dal Consiglio nazionale svedese per la salute e il benessere, Avranas ne fa una metafora utile a raccontare le conseguenze nefaste della società contemporanea, così come è attualmente impostata, sui bambini (e quindi sulle nuove generazioni). Quiet Life racconta di due richiedenti asilo russi - Sergei e Natalia - fuggiti in Svezia con le loro due figlie, Katja e Alina, nella speranza di una nuova vita felice. Tali speranze vengono infrante quando la loro richiesta viene respinta dagli uffici statali. La figlia Katja, traumatizzata da questo rifiuto e incapace di immaginare un futuro differente, cade improvvisamente in coma, innescando una spirale discendente apparentemente inarrestabile.

In occasione del 28esimo Black Nights Film Festival di Tallin, abbiamo avuto modo di dialogare con il regista Alexandros Avranas.

D: Quanto hai lavorato alla sceneggiatura di questo film con il co-autore Stavros Pamballis, che tipo di ricerche avete fatto e che tipo di dibattito c’era in Svezia attorno a questa sindrome quando siete arrivati voi?

R: Abbiamo impiegato circa tre anni per scrivere la sceneggiatura, anche perché il Coronavirus ha rallentato le cose, costringendoci a rimandare le nostre ricerche in Svezia. Quando siamo andati lì, abbiamo intervistato tantissimi dottori su questa sindrome e abbiamo parlato con chi lavora all’ufficio immigrazione per capire le procedure per i richiedenti asilo. È stato un lavoro molto lungo e difficoltoso, perché in Svezia questo tema è ancora divisivo. Per tanto tempo è stata negata l’esistenza di questa sindrome, specialmente dalla politica di destra, che ha alimentato la diffidenza nei confronti dei migranti. Ma la realtà non si può negare del tutto. Quei bambini sono lì. Non esiste cura per questa sindrome se non la speranza. La speranza è la sola cosa che permette di risvegliarsi da questo stato comatoso in cui cadono. È come in una fiaba. 

D: Il film, attraverso la metafora della Resignation Syndrome, pone una domanda fondamentale: qual è la società che stiamo lasciando ai nostri figli? I bambini nel film si rifiutano di continuare a vivere nel mondo che è stato creato per loro. Così, dopo Miss Violence, sono ancora loro, i più piccoli, a segnalare l’allarme nella società nel tuo cinema. Perché questa scelta?

R: I bambini per me rappresentano la purezza e mi interessa raccontare la società attraverso il modo in cui gli adulti si relazionano con loro. È il modo migliore per capire i nostri errori, per capire la direzione verso cui la nostra società si sta muovendo. Mi vien da dire che Miss Violence e questo film sono speculari. In uno la famiglia è il sistema, una estensione delle sue dinamiche malate, nell’altro (Quiet Life, ndr) la famiglia è contro il sistema, al di fuori di esso. Si tratta in entrambi i casi di un cinema politico, che vuole far riflettere, suscitare un dibattito, anche molto accesso. Non sono pop-corn movies...

D: Che relazione hai con il naturalismo al cinema? I tuoi film hanno uno stile molto realistico e partono sempre da un dato di realtà, però poi sembrano dirigersi verso atmosfere più distopiche, verso una realtà che assomiglia alla nostra ma che non è esattamente quella.

R: Questa sindrome mi è apparsa da subito come qualcosa di distopico, fin dalla prima volta che ne sono venuto a conoscenza. Il problema è che invece esiste, è una realtà della nostra società. Quindi ho dovuto adattare il mio film per mettere in scena questa malattia. Non sono io che ho voluto creare un effetto distopico, ma è la realtà che produce queste sindromi distopiche. È qualcosa su cui bisogna riflettere. Penso inoltre che in Quiet Life anche la recitazione sia molto naturale. Non c’è teatralità o formalismo nel modo in cui parlano. Quando sei un rifugiato e ti tocca aspettare anche due anni per ricevere una risposta alla tua domanda di asilo, è normale chiudersi in se stessi, essere intrappolati in questo limbo in cui non puoi fare altro che aspettare. Mi sono quindi chiesto come potevo mettere in scena questa attesa, la burocrazia statale e il sistema che se ne serve. Per me Quiet Life è un film assolutamente realistico ed è la realtà ad essere diventata distopica.

D: Come hai lavorato sulla direzione e sul ritmo della narrazione per trasmettere questo tipo di oppressione che sperimentano i personaggi in questa attesa infinita? Hai voluto amplificare questa sensazione di essere controllati dagli altri e di non poter decidere da soli?

R: Assolutamente. È come leggere Kafka. Quando si ha a che fare con il sistema, con la burocrazia, perdi tutta l’autorità, anche rispetto ai tuoi figli. Sei controllato da altri, non hai più potere decisionale. Ed è questo il motivo per cui ho adottato questo stile. Per ricreare questa perdita di controllo.

D: Kafka è un’ispirazione per te anche per la distanza con cui si pone rispetto alle cose narrate?

R: No, in realtà ho voluto scegliere un approccio molto più empatico ed emozionante, facendo emergere il punto di vista dei protagonisti e i loro sentimenti. Non tanto come loro vedono il sistema, o come il sistema vede loro. Ma cosa provano come esseri umani in questo ambiente che è anche apparentemente bello, accogliente, ma che in realtà non li vuole. Ed è per questo che ho giocato molto con il senso di vuoto. Ci troviamo spesso in spazi che sono vuoti, quindi che potenzialmente potrebbero essere utilizzati, vissuti. Ma i protagonisti non hanno questa possibilità di attivazione, perché non hanno una prospettiva di vita. La freddezza invece serve a dare l’idea che il sistema non si può battere. È invincibile. 

D: Effettivamente sembra che l’ambientazione svedese ti abbia dato l’opportunità di mettere sullo schermo un mondo di apparente bellezza, creando un contrasto con ciò che viene raccontato. In qualche modo l’architettura nel film riflette una determinata struttura sociale.

R: È così. Per creare questo aspetto di freddezza e distanza ho girato negli ambienti esterni come se mi trovassi in uno spazio chiuso. Quindi anche quando i protagonisti sono all’aperto non sembrano avere sufficiente aria per respirare. Ho voluto raccontare questo loro isolamento, la totale assenza di interazione con la città e con gli altri abitanti.

D: Vorrei chiederti da cosa deriva la scelta del background dei protagonisti, la decisione sul loro Paese d’origine, la Russia, che ti permette di affrontare anche altri temi come quello della ribellione, della libertà di pensiero, dell’oppressione violenta dei regimi.

R: Ci sono diversi motivi dietro a questa scelta. Abbiamo ambientato il film nel 2018 perché lo abbiamo scritto prima dell’invasione dell’Ucraina. Quindi ci trovavamo in un momento in cui la Russia non era percepita come la minaccia che è adesso. Tutto sommato si lasciava correre e si tendeva a minimizzare le cose che facevano anche al loro interno, nonostante già in quegli anni girasse un report delle Nazioni Unite in cui si documentavano lungamente, per oltre 48 pagine, le violazioni dei diritti umani in Russia. Negli ultimi anni, inoltre, la maggior parte dei casi di questa sindrome ha coinvolto cittadini provenienti dalla Russia o comunque da Paesi ex-sovietici. Quindi è stata sia un’esigenza di realismo sia un modo per raccontare cosa accade nei regimi oppressivi, in cui è persino vietato leggere determinati libri, come quelli dei filosofi greci o di alcuni scrittori europei. È un paradosso, quello di un Paese che ha prodotto tanta cultura, nel cinema come nella letteratura, e che adesso impedisce ai suoi cittadini di leggere e studiare. È stato uno script tristemente profetico. 

D: I tuoi film spesso suscitano reazioni molto forti, per i temi che trattano e per il modo in cui vengono raccontati. Come stanno andando le presentazioni in giro per i festival? Che opinioni stai raccogliendo?

R: Proietteremo il film in Svezia alla fine di gennaio in un festival e sono davvero curioso di scoprire quale sarà la reazione del pubblico, visto che sarà successivamente distribuito anche lì. Fino a questo momento, la risposta del pubblico è stata molto positiva, molto emozionante. I dibattiti alla fine delle proiezioni sono sempre molto belli, con tante domande profonde e toccanti. Devo dire che è stato accettato molto più facilmente rispetto a Miss Violence, pur non essendo meno duro. E credo che questo sia dovuto proprio allo stile di regia. Che non è manipolatorio, non è percepito come tale. Ma ti permette di guardare la realtà attraverso gli occhi e attraverso i sentimenti dei protagonisti. È un film che non preclude la possibilità di “un’amicizia” tra il film e gli spettatori, come invece avviene quando si è troppo formalistici, quando si tende ad escludere il pubblico o ad ingaggiare una gara di intelligenza con gli spettatori, a giocare a chi è più brillante. Questo invece è un film più tenero, che ti lascia anche una speranza alla fine. Nonostante tutto.

D: Dato il tema del film, ti voglio chiedere se hai speranza che i giovani di oggi, le nuove generazioni, possano superare questa rassegnazione e costruire un futuro diverso…

R: No. Dobbiamo iniziare a dare loro questo spazio. È tutto troppo chiuso, specialmente nel Nord Europa, in cui si tende ad aderire troppo ciecamente alle regole imposte, ad un sistema che è fin troppo organizzato, in cui tutto è rigidamente controllato. Non c’è spazio per la compassione. Tu cosa ne pensi?

D: Io sono leggermente più ottimista. Credo che, al di là della volontà di chi comanda, ci sia la determinazione da parte dei più giovani di pretendere questo spazio…

R: Spero che sia come dici tu. Ma a me sembra uno spazio finto quello che viene concesso. Con tutto quello che sta succedendo nel mondo. Le guerre in Ucraina e Medio Oriente, il cambiamento climatico che sta accelerando i suoi effetti disastrosi sulla nostra vita, la vittoria di Trump in America... sono molto preoccupato. Ma anche io credo che la necessità sia quella di trovare una nuova speranza e una nuova occasione di comunione tra le persone.

D: Credi che sia compito del cinema dare questa speranza?

R: Beh, come hai detto tu prima, spesso il pubblico non è a conoscenza di determinate cose. Quindi il cinema può far conoscere alla gente determinate realtà, determinati problemi. Certo, poi c’è anche il cinema pensato per farteli dimenticare quei problemi... ma il mio obiettivo è quello di spingere il pubblico a riflettere. Ho presentato il film ad Amburgo, a Lubecca, in posti anche molto vicini alla Svezia, che vedono in quel Paese un modello di riferimento, e gli spettatori non sapevano nulla di tutto quello che viene raccontato. È stato un modo per aprire una discussione.